Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraïm
       Sovrano Santuario Italiano



N. XI Novembre 2009

 

(P. Mander)Gilgamesh e Dante




 

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Gilgamesh e Dante
Gilgamesh

Contenuto del fascicolo

1. Sintesi della versione “standard” dell’Epopea di Gilgamesh     pp. 2-4
2. Testo dell’articolo scritto nel 1993 e apparso nel 1995   pp. 5-22
3. Aggiornamenti                               pp. 23

Sintesi della trama della versione standard

(detta: Sha naqba imuru o “di Sînleqêunnini)

 

Tracciamo ora una breve sintesi della trama della versione Sha naqba imuru “Colui che tutto vide”, per poi produrre ulteriori considerazioni. Questa versione è in 12 tavole, ma la XII non si adatta alla trama, ed è stata aggiunta come appendice. In essa si narra la visione ultra-mondana di Enkidu, sceso agli inferi per conto di Gilgamesh, ed ivi rimasto trattenuto per la leggerezza del suo comportamento.
Tavola I.
In essa, dopo il prologo, viene descritto Gilagmesh che, come re, opprime il suo popolo, costringendolo a massacranti corveé per edificare le mura di Uruk. Le donne, stanche di queste condizioni, pregano gli dèi, i quali, accolta la supplica, creano Enkidu, il rivale di Gilgamesh. Uomo selavaggio, Enkidu è in confidenza con gli animali e distrugge le trappole sistemate dai cacciatori. Per distogliere Enkidu, uno di questi organizza un incontro con una prostituta, che infatti seduce il selvaggio. Dopo questo incontro, qualcosa è mutato, infatti gli animali sfuggono Enkidu. La prostituta allora propone a quest’ultimo di recarsi ad Uruk. Nella città un sogno premonitore avverte Gilamesh dell’arrivo del rivale.
Tavola II.
Lungo la via, Enkidu, condotto dalla donna, s’incontra con dei pastori presso cui ha modo di conoscere gli alimenti ed i modi del vivere civile. Apprende anche di come il re di Uruk esercitasse lo ius primæ noctis. Indignato, Enkidu decide di affrontare il re. Entrato in città, Enkidu s’imbatte in Glgamesh mentre questi perseguiva i ssuoi usi perversi. I due lottano allo stremo: Gilagamesh prevale ed Enkidu ne accetta la supremazia; su questa base si sviluppa una salda amicizia. Gilgamesh vuole compiere un’impresa eroica; Enkidu tenta di dissuaderlo, così come tenta l’assemblea degli anziani, ma i due amici si preparano per partire alla volta della Foresta dei Cedri.
Tavola III.
I due eroi ottengono la benedizione della dèa Ninsun (madre di Gilgamesh), la quale chiede per loro al dio-Sole Shamash e alla di lui paredra Aja protezione per l’impresa. La dèa quindi adotta Enkidu, che non ha genitori. Gilgamesh predispone la partenza, dando istruzioni per il governo della città durante la sua assenza.
Tavola IV.
Il viaggio è lungo e ad ogni sosta i due eroi celebrano riti per ottenere sogni premonitori. Gilgamesh si sveglia sempre atterrito da incubi, ma viene sempre rassicurato da Enkidu. Il dio Shamash consiglia un assalto repentino, per sorprendere Huwawa.
Tavola V.
I due eroi restano stupefatti della densa vegetazione che copre la montagna. Essi lanciano il primo assalto, ma Huwawa gli si oppone, accusando di slealtà Enkidu. Esortati da quest’ultimo, essi conducono un nuovo rapido attacco, e Shamash acceca Huwawa mentre questi affronta Gilgamesh; sconfitto, l’orco implora pietà, ma Enkidu esorta Gilgamesh ad ucciderlo, prima che gli dèi s’accorgano di ciò che è successo. Huwawa prima di morire maledice i due eroi. Questi abbattono numerosi cedri. Enkidu suggerisce di fare le porte del tempio di Enlil col legno migliore.
Tavola VI.
La dèa Ishtar s’accende di desiderio per l’eroe vincitore e gli si offre; Gilgamesh invece la respinge, ricordandole la sorte toccata ai suoi precedenti uomini. Si scatena l’ira della dèa che si reca dal padre Anu (= Sumerico An). Viene inviato il Toro Celeste che arreca distruzioni nel paese, ma i due eroi, scoperto il suo punto debole, lo uccidono. Viene celebrata la vittoria, nell’euforia della quale essi insultano Ishtar. Tavola VII.
Enkidu in sogno percepisce la condanna da parte degli dèi; egli maledice la porta lignea del tempio di Enlil, costruita su sua iniziativa, che non è in grado di salvarlo. Shamash accorre per calmare Enkidu, che stava maledicendo sia il cacciatore che la prostituta che avevano causato questa svolta fatale nella sua esistenza. Enkidu allora benedice la prostituta e apprende, in un altro sogno, come verrà condotto agli inferi. Raccontato il sogno al suo amico, s’ammala. Mentre la morte s’avvicina egli rimpiange di non esser caduto in battaglia.
Tavola VIII.
Questa tavola è dedicata alla descrizione dei funerali di Enkidu, completata dall’enumerazione dei beni che vengono offerti alle divinità infere e quelli che vengono poste nella tomba perché l’anima possa farne dono alle medesime.
Tavola IX. Gilgamesh, spaventato dalla morte, che capisce esser certamente anche sua propria sorte, parte alla ricerca dell’unico uomo immortale, Uta-napishtim. Giunto ai confini del mondo, trova i due uomini-scorpioni, posti a guardia del passo tra i due monti ove transita il Sole. Essi cercano invano di dissuadere Gilgamesh; in considerazione della natura per un terzo divina dell’eroe, lo lasciano passare. Questi attraversa una galleria lunghissima, al cui termine trova uno splendido giardino.
Tavola X. Nel giardino, difronte alla sponda del mare, Gilgamesh incontra la taverniera, la dèa Shiduri. Egli le racconta gli eventi che lo hanno spinto fin laggiù, chiedendole aiuto per attraversare il mare. La taverniera tenta anch’ella invano di dissuaderlo, mettendolo in guardia sui pericoli dell’attraversamento di quel mare, detto “acque di morte”. Infine, per assecondare l’insistenza dell’eroe, gli spega come il battelliere Ur-shanabi tenga i collegamenti con l’isola dell’immortale. Gilgamesh aggredisce allora il battelliere, rompendo le “Pietre” di  cui questi si serve. Al termine della zuffa, Gilgamesh espone la sua richiesta, ma Ur-shanabi gli spiega come, essendo le “Pietre” distrutte, sia ora quasi impossibile attraversare le “acque di morte”. Solo allestendo pertiche di smisurata lunghezza è possibile spingere la barca fino all’isola. Una volta esaurita la scorta di pertiche, preparando una vela con le vesti, i due riescono a sbarcare nell’isola. Finalmente Gilgamesh incontra Uta-napishtim; quest’ultimo, dopo aver spiegato all’eroe come la morte sia per gli altri uomini destino inevitabile.
Tavola XI.
Uta-napishtim narra come ottenne l’immortalità. Sopravvissuto con l’arca al Diluvio universale, da lui e sua moglie ebbe inizio l’umanità attuale, donde gli dèi resero la coppia immortale. Quindi egli sottopone l’eroe alla prova del sonno: restar sveglio per una settimana. L’eroe fallisce e realizza come, non essendo neppure capace di vincere il sonno, mai potrà battere la morte; avvilito s’accinge a partire, ma, secondo l’uso, la coppia immortale elargisce doni all’ospite. Su suggerimento della consorte, l’immortale – come ulteriore dono – indica a Gilgamesh dove, nelle profondità del mare, cresca la pianta che fa ringiovanire. L’eroe si tuffa e la prende, e, soddisfatto, torna verso Uruk accompagnato da Ur-shanabi. La sua gioia è però di breve durata: mentre è distratto, un serpente gli ruba la pianta. All’eroe non resta che, giunti ad Uruk, mostrare al battelliere le imponenti mura della città che egli fece costruire. Come si vede, il tema della morte chiama il suo opposto, evocando la storia del Diluvio, tema ben presente in Mesopotamia, che si è riversato nella Bibbia. Ma le eco del materiale su Gilgamesh giungono ancora più lontano: ci sono riscontri chiari nell’Odissea, in Platone e in Dante.

(tratto dalla voce: “Epopea di Gilgamesh”.
P. Mander, in: Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi di tutti I tempi e di tutte le letterature, RCS Libri, Milano 2005, Vol. 3 Ded-Fau, pp. 3058-3061)


Gilgamesh e Dante: due itinerari alla ricerca dell'immortalità, in: V. Placella - M. A. Palumbo eds., Miscellanea di studi in onore di Raffaele Sirri, Napoli 1995, pp. 281-297.

STUDI IN ONORE DI SIRRI RUBES

Gilgamesh e Dante: due itinerari alla ricerca dell'immortalità*

Pietro MANDER - I. U. O di Napoli

I mondi culturali dell'Italia medievale e delle antiche civiltà mesopotamiche sono certamente così distanti nel tempo e nello spazio, che un raffronto diretto risulterebbe un inutile esercizio. Eppure possono essere individuati, se esaminati singolarmente, dei tratti raffrontabili, qualora si consideri che certi temi, manifestazioni di aneliti propri dell'uomo quando si pone davanti ai grandi problemi spirituali, trovano espressione concreta in immagini simili, se non sul piano narrativo, almeno su quello morfologico della trama.
Raffronti di questo tipo son già stati proposti all'attenzione degli studiosi: accostamenti dell'epopea di Gilgamesh al mondo omerico o al “Simposio” platonico hanno recato vigorosi impulsi alla comprensione del più antico testo che, seppur interpretato nelle sue linee principali, resta ancora per molti aspetti, avvolto nel mistero.
Le cospicue similitudini dell'epopea di Gilgamesh con l'Odissea, delineate con chiarezza da Gresseth , potrebbero esser usate come ponte per accostarsi a Virgilio e da qui si potrebbe poi scivolare direttamente nel viaggio ultraterreno del Poeta; passaggio forse sotto certune angolazioni particolari - quali aspetti o strutture di singoli “mitologemi” - lecito, considerando che lo stesso Gresseth non cela poi in definitiva l'idea che tanto il racconto del nostos  di Ulisse, che l'epopea di Sinleqiunnini , traggano i loro antecedenti da una più antica versione comune (p. 16 n. 26), transitata probabilmente dall'Asia Anteriore all'Egeo per porti delle coste orientali mediterranee siro-anatoliche, come, ad esempio, Ugarit,  o per le carovaniere dell' Anatolia Ittita, fino a terminali quali Mileto o Troia. Credo tuttavia che una ricostruzione “diffusionistica” di singoli temi e strutture narrative - in quanto acquisizioni sostenute dal fascino di temi stranieri uditi in terre lontane: “prodotto d'importazione”, quindi, incasellato nella struttura culturale autoctona con gradi diversi d'adattamento - possa essere solo secondariamente incisiva. Secondo il mio punto di vista invece, il tema “importato” costituirebbe solo una risposta indotta ad esigenze culturali insoddisfatte quando non addirittura un traduttore di pulsioni latenti, rispetto alla realtà vivente del dramma profondo del pensiero dell'uomo che cerca l'Immortalità; la via che qui seguiremo, pertanto, orientata sulla ricerca esistenziale, sarà quella del raffronto diretto, immediato. 

§ 1. Generalità sui poemi di Gilgamesh

Dobbiamo subito precisare che le gesta di Gilgamesh ci sono pervenute in modo tutt'altro che unitario; grazie alla recente edizione di tutto il materiale cuneiforme relativo all'epopea ad opera di Pettinato, che per la prima volta ha reso accessibile in una lingua moderna al grande pubblico il corpus integrale dei poemi sumerici su Gilgamesh, sarà agevole in questa sede, indicare sommariamente lo stato della problematica.
La vicenda di Gilgamesh, quale è generalmente nota al pubblico colto, perché presentata in diverse versioni in lingue europee moderne , è quella detta “classica”, attribuita al Sinleqiunnini pocanzi menzionato (vd. nota 4), inizia con il lamento delle famiglie di Uruk, private della quotidianità degli affetti domestici per l'assenza degli uomini validi, continuamente ingaggiati dall'eroe per il conseguimento delle sue gesta; la creazione da parte degli dèi dell'uomo selvaggio Enkidu, concepito come rivale di Gilgamesh, fa seguito all'accoglimento delle lamentose preghiere. Gilgamesh ed Enkidu, intanto “civilizzato” da una ierodula, dopo essersi scontrati, divengono amici e compiono una grande impresa, l'uccisione del mostro Hubaba, custode della “Foresta dei Cedri”. I recenti ritrovamenti iraqeni della “Biblioteca del dio del Sole” a Sippar, nel 1988, hanno permesso, grazie alla presenza di manoscritti paralleli, di conoscere le motivazioni di quest'impresa, finora rimasti oscuri a causa di gravi lacune nei mss. noti: Gilgamesh cercava di ottenere l'immortalità per il suo amico, immortalità conseguibile mediante il pasto rituale del corpo di Hubaba stesso . L'epopea giunge al suo punto di svolta allorché la morte di Enkidu spinge Gilgamesh ad attraversare le porte dell'orizzonte, dietro le quali sorge il Sole, per raggiungere il “Noè” mesopotamico, il suo avo Utanapishtim, che ha ricevuto dagli dèi il dono dell'immortalità, per interrogarlo sulla via da intraprendere per ottenere il medesimo dono.
Il tema dell'immortalità ed il suo rapporto con il concetto di “vita lunga”, ovvero la stessa longevità anelata dai regnanti di Sumer e della Babilonia, che per essa erigono templi in cui consacrano proprie immagini, (si veda, e. g. Gudea, Statua A iii 4-iv 2), merita una trattazione a parte che qui non può esser affrontata; rileviamo solo come fosse caratteristica dei sovrani antidiluviani una vita incredibilmente lunga, come documenta la “Lista Reale Sumerica” , e come l'immortalità venga conseguita, in tempi di Diluvio, da colui che al Diluvio è scampato, perché “sommamente saggio” , partecipe quindi dei disegni divini.
Occorre quindi completare il quadro della cosmologia Sumero-babilonese, considerando anche un “Eden”, collocato in un luogo mitico, “posto alla foce dei fiumi” (identificabile miticamente, per certi aspetti, con la sumerica Dilmun), sede di Utanapishtim. Tale luogo, che può esser considerato come un altro regno ultramondano oltre agl'Inferi stessi - cui l'umanità è destinata dopo la morte - è riservato a chi “ha trovato la vita” (espressione questa che traduce letteralmente il nome Utanapishtim) ovvero è stato capace di renderla “lunga” (tale è la traduzione del nome del personaggio che corrisponde ad Utanapishtim nella mitologia sumerica: Ziusudra). Il problema della localizzazione di Dilmun da un punto di vista cosmologico sarà ripreso più sotto.
Il finale della vicenda del poema classico è nota: fallita la prova del sonno , Gilgamesh riprende la via del ritorno e perde anche la «pianta dell'irrequietezza» che Utanapishtim gli aveva donato .
I poemi sumerici su Gilgamesh invece, non sono stati rielaborati dall'arte di un fine rapsoda e ci sono giunti sparsi, ognuno a se stante, senza apparenti rapporti tra loro. Di essi ci interessa, in questa sede, soprattutto quello denominato, “Gilgamesh e Hubaba” . Il confronto con la Divina Commedia tenderà ovviamente ad appiattire tutto il materiale mesopotamico, sfumandone le differenze; per ovviare a questo inconveniente, a rischio di parer pedanti, puntualizzeremo, quando necessario, con precisione, le fonti. 

§ 2. Viaggio di Conoscenza

Così, dopo aver tentato una giustificazione per il tema che ci accingiamo ad affrontare, ricorderò che tanto l'epopea di Gilgamesh , che la Commedia del Divino Poeta descrivono un itinerario alla ricerca della conoscenza - la sola condizione capace di far conseguire l'immortalità - ognuno secondo modalità proprie, naturalmente consone alle civiltà in cui i rispettivi canti sono sbocciati.
Non si deve trascurare che l'incipit del poema classico (Tav. I 1-6) recita:
 
[Di Gilgamesh che] vide ogni cosa [voglio] io narrare al mondo;      1
[di colui che] apprese [ogni cosa],  rend[endosi esperto] di tutto.

[Egli andò alla ric]erca [dei Paesi] (più lontani),
(e) in ogni cosa [raggiunse] la com[pleta] saggezza.

   Egli vide cose [seg]rete, [scoprì] cose nascoste,                                     5
egli [rif]erì delle leggende dei tempi prima del diluvio.

conducendoci quindi a porre in esatto parallelo l'eroe mesopotamico con il Poeta che, avendo raggiunto la visione di Dio, ha conseguito la più alta forma di conoscenza possibile.
Gilgamesh e Dante ci appaiono dunque, quali due pellegrini dello spirito, due grandi personalità che hanno affrontato quello che senz'altro, nel presente contesto, si può definire il Viaggio, secondo, per consapevolezza, solo al Grande Viaggio, quello che ogni essere vivente compie allorché i suoi giorni hanno termine; è infatti la consapevolezza a determinare la successione nella sequenza or ora menzionata: infatti è proprio il Grande Viaggio, con la sua assoluta ineluttabilità a suscitare l'esigenza di ricerca interiore che costringe ad intraprendere il Viaggio. Quindi quest'ultimo è anche subordinato ad un ordine di conseguenzialità, prodotto dalla crescita della coscienza quando affronta, senza timori, i temi dell'esistenza, della nascita e della morte.
Tanto Dante che Gilgamesh partono incalzati da quest'urgenza; vissuta drammaticamente come angoscia per l'eroe mesopotamico che assiste alla morte del suo amico e compagno di epiche imprese, o come smarrimento per il poeta medioevale che si trova a vagare insidiato da belve feroci che appaiono inquietanti in una selva senza luce nella quale l'uomo si trova, senza sapere come, quando e perché vi sia entrato.

§ 3. Generalità sui punti di similarità tra la Comedia ed i poemi su Gilgamesh

Il carattere di stimolo alla crescita interiore ed alla conoscenza esercitato dall'amore nel poema di Gilgamesh è stato puntualmente messo in risalto da Held nell'articolo citato alla nota 1, in cui  egli ha delineato i tratti paralleli tra l'epopea di Gilgamesh ed il Simposio di Platone.
L'amore, anche se nel senso più fisiologico - limitato cioè all'atto dell'accoppiamento - è la forza che trasforma Enkidu, allontanandolo irreversibilmente dal mondo della steppa, di cui egli era campione, evento quest'ultimo che lo indusse a seguire la sua seduttrice nella città. La trasformazione è, come ha rilevato Tzvi ABUSCH, di una portata radicale, in quanto comporta un cambiamento irreversibile dello stato o condizione precedenti .

Il rapporto, è bene notarlo, tra una Venus e l'epica è comune ad altre letterature dell'antichità: oltre al rapporto costante nell'epica sumerica ,

ricordiamo come sia la scelta di Afrodite (da parte di Paride) ad aver originato le vicende da cui sono sorte l'Iliade e l'Odissea, mentre sono le vicende proprio del figlio di Venere ad esser cantate nell'Eneide.
Se dobbiamo leggere una costante di così larga diffusione sotto un “archetipo” mitologico, torniamo allo studio di Held or ora citato, riconoscendo un carattere di “potenza trasformatrice” alla dèa dell'amore, sia essa Inanna, Ishtar, Afrodite o Venere - fatte salve le cospicue differenze tra le singole figure nei propri contesti mitologici - o Afrodite Urania/ Pandemia del dialogo platonico.
Tornando al nostro tema, abbandonando le considerazioni ora esposte, meritevoli di indagine approfondita da svolgere in altra sede, dobbiamo mettere in evidenza che anche Beatrice - l'amore per la quale ha condotto il poeta a comporre la “Vita Nova” - è ragione, agendo nel modo anzidetto, di una trasformazione radicale in Dante, permettendogli di sottrarsi al regno della “morte” (ovvero del peccato) e di accedere alla Vita (ovvero alla contemplazione dell'“Amor che move il Sole e l'altre stelle”).

® 4. Il Regno intermedio posto tra la Terra ed il Cielo
 
Recentemente gli studi assiriologici hanno compiuto un notevole progresso nel campo dello studio delle tematiche mitologiche presenti nei grandi poemi sumerici: infatti nel 1987 è apparso l'importantissimo volume della Bruschweiler sulla dea Inanna e sul mondo mitico dove essa opera , volume in cui l'autrice affronta lo scabroso argomento dell'interpretazione del termine sumerico kur.
Generalmente tradotto dai moderni come “montagna”, “paese montuoso” e, conseguentemente alla configurazione geografica della piana alluvionale mesopotamica, “paese straniero” (con riferimento alle montuose o collinose regioni circostanti abitate da popolazioni diverse), kur può anche assumere il significato di “Mondo dei defunti, Al-di-là”, in parallelo con ki-gal “grande terra”, uno dei tanti sinonimi per esprimere quel concetto.
Il termine kur inoltre,  nei poemi sumerici, può anche ricorrere - e questo è un dato di rilievo - contestualmente all'apparente quasi sinonimo hur-sag “montagna”. La differenza semantica tra i due lemmi si perde in accadico dove il termine šâdum  “montagna” fornisce la resa di entrambi kur e hur-sag.
La Bruschweiler, avendo individuato l'area semantica di kur, in opposizione a hur-sag, dove questo designa l'aspetto fisico della montagna, mentre kur ne esprime gli aspetti essenziali, ovvero di luogo ove la vita - in tutte le sue forme, animale e vegetale - prolifera spontaneamente , può riconoscere come si debba estendere tale concetto da un ambito meramente naturalistico ad immagine rappresentativa di ambienti mitici, collocabili all'origine dei tempi o al di là della sfera dell'esperienza comune degli uomini. Il kur si presenta - sintetizzando i risultati della accuratissima ricerca della studiosa - come un mondo, precluso agli esseri umani, in cui operano gli dèi, ed estendentesi - in tale aspetto - tanto in alto, quanto - nel suo aspetto infero, come residenza dei defunti - in basso. L'aspetto superiore del kur è l'ambiente in cui hanno luogo le prime fasi della creazione, che la studiosa definisce “conceptuelle” o “pré-matérielle”.
Un tratto particolare è il rapporto che il kur ha con la suprema divinità attiva del pantheon sumerico, il dio Enlil “Signore-vento/ soffio”, appellato kur-gal “Grande kur ” ed il cui tempio, in Nippur, era chiamato e2-kur “Casa-kur”.
Il cosmo si presenta così articolato in tre grandi zone:1) an “il Cielo”, nome che designa altresì il dio An, divinità suprema dei Sumeri; 2) kur, dominio privilegiato del signore degli dèi, Enlil; 3) ki, la Terra, dove gli esseri creati conducono la loro esistenza.
In questa posizione, il kur, rappresentabile in forma di montangna , si presenta come un mondo di mezzo, così come il Purgatorio nella concezione ultramondana cristiana si pone tra Paradiso ed Inferno . Naturalmente, al di là di queste somiglianze formali, non si può tracciare una corrispondenza tra la cosmologia sumerica e l'oltretomba cristiano; tuttavia, se in questa sede abbiamo presentato questo confronto, è perché un altro elemento si aggiunge al quadro or delineato.
A questo kur se ne aggiunge un altro, “moins absolu che è descritto come “Montagna dei cedri”, kur-lu2-ti-la “Montagna che dà la vita all'uomo” ; è quest'ultimo il kur, dove vive, quale guardiano della foresta dei cedri, il mostro Hubaba, che costituisce il teatro delle gesta cantate del poema sumerico GilHub. (vd. n. 12).
Gilgamesh, nel dichiarare la propria intenzione a penetrarvi, dice esplicitamente (GilHub. versi 5-8 (idem 31-33)):

io voglio andare verso la Montagna, voglio porre colà
   il mio nome;                                   5
nel luogo dove ci sono già steli, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono steli, voglio porre il nome    
   degli dèi.
 
Il termine che Pettinato traduce con “stele” è mu, il cui significato principale è “nome”; la polivalenza semantica del termine sumerico rispetto alle lingue moderne, indica chiaramente come sia desiderio di Gilgamesh porre la propria “essenza” tra quelle degli dèi, ovvero raggiungere una sorta d'immortalità. L'episodio dell'epopea classica (Tavole IV-V) che dal poema sumerico deriva , sembra essere comunque incentrato su un'analoga motivazione .
La Montagna divina quindi, come kur-lu2-ti-la, presenta analogie con il Purgatorio, anch'esso montagna che dà la Vita, in quanto rende l'espiazione possibile; ma sono le analogie che la Bruschweiler ha messo in luce tra questo kur e Dilmun che completano il confronto.
Con la denominazione di paese di Dilmun, come ha determinato Alster , si definiva un'area costiera nella parte orientale dell'attuale Golfo Persico, posta attorno all'attuale isola di Bahrain, includente la costa orientale della penisola araba e le coste degli attuali Emirati Uniti (Abu Dhabi, Dubai). Tuttavia la denominazione “Dilmun” può benissimo esser intesa come indicazione di regioni mitiche, poste in direzioni lontane; Dilmun, dimora dell'Utanapishtim sumerico, Ziusudra, viene descritta posta ad Oriente; Alster ha dimostrato che geograficamente questa descrizione escluderebbe l'identificazione con Bahrain . Pensiamo che l'affermazione della Bruschweiler, la quale sottolinea come l'esser a Levante sia denotazione di fonte di vita, fornisca la chiave al problema . Senso analogo deve scorgersi nella posizione centrale del kur nella “mappa cosmologica” tracciata da uno scriba di Fara sul verso di una tavoletta con un testo lessicale: anche in essa la posizione, questa volta centrale, assume valore non topografico ma simbolico, alludendo ad una centralità creatrice quale quella messa in luce dalla Bruschweiler. Dilmun compare, nella mitologia sumerica, non solo come residenza dell'immortale Ziusudra, ma anche come sede in cui il dio Enki, dio dell'Apsû, l'oceano di acque dolci sotterraneo , e della saggezza. Nel mito “Enki e Ninhursanga”, Dilmun appare come una zona in cui avvengono atti di creazione che devono esser posti in rapporto a diversi mitologemi caratteristici dei miti di questo genere .
Un “pays de l'immortalité , si ritrova anche sulla cima del Purgatorio; separato dall'oceano e posto agli antipodi di Gerusalemme, dove sul Golgota la pianta della Croce “rinverdiva … in fronde e frutti di vita eterna” , l'Eden rappresenta da un lato il teatro della colpa di Adamo, donde la “cacciata”, dall'altro - dopo che l'uomo ha riacquisita, al termine dell'espiazione, l'“innocenza perduta” - la meta di tale regressio . Anche di questa terra si è detto che fosse ad orientem , comunque inaccessibile, addirittura agli antipodi di Gerusalemme, centro del mondo.    

§ 5. L'attraversamento dell'oceano

L'attraversamento delle acque, come via di rigenerazione, è un tema ben radicato nella cultura mesopotamica; ci basti qui accennare al § 2 delle Leggi di Hammurabi, in cui l'accusato di stregoneria (kišpū) viene giudicato per ordalia, immergendosi nel “dio” Fiume che, se egli è innocente, lo restituirà salvo e “puro” (verbo ebēbum ); o al rituale da celebrarsi in occasione di un parto , in cui il nascituro è descritto come prigioniero di un oceano irragiungibile; tale topos è attestato anche altrove .
Anche sul piano cosmologico, l'attraversamento delle acque, perfino in senso inverso, è comunque foriero di rigenerazione: infatti i “sette saggi” che trasmettono all'umanità le arti necessarie alla civiltà, sorgono dal mare ; la loro apparizione è distribuita nei regni dei sette re antidiluviani, ognuno dei quali viene assistito da un saggio (apkallum ). Si deve rilevare - a questo proposito - come l' assistenza del “saggio”, presente ancora all'inizio del periodo postdiluviano, con il regno di Gilgamesh, il cui consigliere è definito “maestro” (ummânum ) , cambi “di grado”, con chiara allusione ad una perdita , per il sovrano, - diremmo così - di ampiezza del Sapere: torneremo appresso su questo aspetto. Sempre riguardo l'attraversamento delle acque, ricordiamo come dopo il diluvio i “saggi” tornarino nell'Apsû .
Non si devono trascurare, sempre nella stessa direzione, tratti culturali le cui tracce si possono rilevare nell'esistenza di nomi di persona quale Pu2-ta-e3-a, letteralmente: “Fatto-uscire-dal-pozzo”, e le implicazioni ad esso connesse, nel fenomeno della “nuova nascita ad una nuova famiglia” implicito negli aspetti speculativi dell'istituto dell'adozione .
Per concludere questa necessaria digressione tornando al confronto qui in oggetto, vogliamo citare parte del discorso che Utanapishtim rivolge a Gilgamesh  (Tav. X 306-320):
Eppure nessuno vede la morte,
nessuno vede la faccia della morte,

nessuno sente la voce della morte.
La morte malefica recide l'umanità.

Noi possiamo costruire una casa,                              310
possiamo costruire un nido,

i fratelli possono dividersi l'eredità.
vi può essere guerra nel Paese,

possono i fiumi  ingrossarsi e portare inondazione:
(il tutto assomiglia al)le libellule (che) sorvolano il fiume -                 315

il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c'è più nulla -.

Il prigioniero e il morto come si assomigliano l'un l'altro!
nessuno può disegnare la sagoma della morte;
l''uomo primordiale" è un uomo prigioniero.           320

 Non ci addentreremo nell'indagine sul significato dell'ultima espressione, quella relativa all'“uomo primordiale”, che sembrerebbe alludere a concezioni complesse circa la natura dell'umanità in rapporto ai singoli individui che ne fanno parte, perché queste richiederebbero un'esauriente trattazione che ci ripromettiamo di svolgere in sede propria; né faremo di più che accennare alla potenza lirica del passo relativo alle libellule ; fermeremo invece soltanto l'attenzione sul parallelo tra il prigioniero ed il morto.
Si direbbe che l'Oceano che cinge la Terra costituisca il limite della morte; entro il suo raggio l'uomo, essendo destinato alla morte, è prigioniero ; anche il nascituro, nel rituale sopra citato, è definito prigioniero .
La liberazione del prigioniero è conseguibile attraversando i flutti - in realtà quasi assolutamente insuperabili - che separano il mondo comune dalla terra “che dà la vita”, ovvero la dimora di Utanapishtim o Ziusudra, l'immortale. E, se parliamo di libertà, non possiamo impedire che il pensiero, tornando alla Divina Commedia, corra ad un personaggio immortale, Catone (l'Uticense).
   
§ 6. Catone ed Utanapishtim
 
La figura di Catone Uticense, incontrata dai due poeti appena emersi dal lungo percorso sotterraneo,  proietta il segno della sua grandezza su tutto il Regno mediano («li tuoi sette regni», Purg. I 82), quasi informandolo della forza della sua virtù. Spirito libero (Purg. I 71-72: «libertà va cercando, ch'è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta») che Dante pone alla soglia del mondo della Redenzione - e non in qualità di guardiano - l'antico personaggio romano è esaltato da Dante anche nel Convivio, come nota Mario Fubini, nel suo articolo su Catone nell'Enc. Dant. Catone, diremmo noi - forse tendenziosamente, ma legittimamente - ci appare quale il “prototipo” umano posto alle soglie della Vita, intesa come la Salvezza contrapposta alla morte eterna del mondo infero; ovvero - parafrasando le parole di Marcello Aurigemma, Enc. Dant. s. v. Purgatorio - il “simbolo di libertà”, con riferimento al “libero arbitrio” che distingue l'uomo nel Creato.
Il Catone di Dante ci sembra comparabile ad un'altra figura, anch'essa posta alle soglie della Vita, intesa nel senso innanzi specificato.
Come Catone, anche la figura mitica babilonese viene incontrata per prima su una spiaggia, ed anch'essa viene descritta come perplessa per l'incontro incipiente (cfr. Purg. I 40-41: «Chi siete voi che contro al cieco fiume / fugita avete la prigione etterna?»); (Tav. X 181-190):

Utanapishtim osserva la scena da lontano,
consultandosi con se stesso, pronuncia le parole,
in verità egli va riflettendo tra sé:

"Perché sono state divel[te le steli di pietra] a cui era
   attraccata la nave
e senza le quali non è possibile attraversare il mare?         185

Colui che viene da me  non è dei miei,
e  ... [LACUNA ]

Io guardo, ma non [lo riconosco];
io guardo, ma no[n lo riconosco];

io guardo, ma non lo riconosco;                          190
   [chi viene] da me?

Utanapishtim, analogamente a Catone Uticense è anch'egli un unico “salvato”, allorché gli dèi lo scelsero per continuare l'umanità.

In entrambi i casi si presenta uno schema narrativo composto da un “azzeramento” (la discesa di Cristo agl'Inferi / il Diluvio universale) seguito poi dall'elezione di un unico superstite, scelto per le sue virtù (Utanapishtim è appellato “l'estremamente saggio” atram-hasīs  nel poema da detto epiteto denominato).
Ma consideriamo ora momentaneamente solo la posizione di Utanapishtim; la sua sorte di unico sopravvissuto lo pone in una funzione esatta di nesso di continuità tra l'umanità prediluviana e quella che verosimilmente da lui ha avuto i natali: un'umanità che da un lato costituisce la continuazione di quella precedente, con le differenze poc'anzi notate. In altre parole, per considerare i caratteri generali di questa storia che è cosmologia, il superstite in grado di garantire la continuità dopo il Diluvio, non può che essere che colui che racchiude in sè il frutto migliore del passato, (“quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo” si chiede Dante nel Convivio IV) per le proprie virtù conseguite in vita. Il superstite quindi si trova a cavallo di due ere (o cicli), sugello di quello anteriore e premessa generativa del successivo; un nuovo “primo uomo” alla vigilia di una “seconda creazione”. Il suo posto quindi è un “Eden”, cui deve necessariamente trendere chi cerca la vita (o, meglio forse, la Vita), perché è quello il luogo da cui essa è in definitiva scaturita, in relazione all'era presente.
Catone si trova a svolgere lo stesso ruolo di nesso, in quanto, testimone di un'era (ovvero di un'umanità) trascorsa, quella dell'antichità romano-pagana, vien posto dalla Volontà Divina alle soglie del mondo della salvezza - sotto il segno splendente di quattro stelle che sono le quattro virtù cardinali - appartenente all'era della Redenzione, iniziatasi con il sacrificio del Figlio di Dio (che all'inizio preciso dell'era, nella Sua discesa agli Inferi, elegge Catone).
Dante, a differenza di Gilgamesh, inizia il suo viaggio accompagnato da un saggio, ovvero dal retaggio della tradizione antica, personoficata dal suo figlio più completo, Virgilio ed ispirato da Beatrice, vettore della Volontà Divina che rende possibile non solo tutto il percorso, ma anche il conseguimento dell'ultima meta (dove le subentrerà S. Bernardo). Sotto questa prospettiva Virgilio come Catone si presentano quali due aspetti diversi e complementari di quel mondo trascorso che fornisce ancora la “forza di propulsione” necessaria per il ritorno al luogo di connessione: ricordiamo infatti che il poeta, giunto nel Paradiso Terrestre, dopo esser stato incoronato (Purg. XXVII 140-142: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch'io te sovra te corono e mitrio») da Virgilio, al momento in cui incontra Beatrice, si accorge che quest'ultimo è sparito (Purg. XXX 49-54). Ovvero, non è più neccessario alcun sostegno o guida dalla sapienza pregressa , subentrando direttamente la Luce divina: la via della Salvezza eterna e della Visione di Dio è aperta.
Ben diverso invece appare il viaggio di Gilgamesh: in esso infatti manca proprio il beneplacito divino, come espressamente indicato nel poema (Tav. XI 197-198):

Ed ora, chi potrà far radunare per te gli dèi
in modo che tu trovi la vita che tu cerchi?

e come forse dobbiamo credere dal grado inferiore che la tradizione posteriore attribuisce a Gilgamesh, come abbiamo visto: egli è assistito da un “maestro”, non da un “saggio”; insomma, non ha un “Virgilio” al suo fianco.
Vedremo in seguito come il viaggio di Gilgamesh sia piuttosto paragonabile, nei confronti del mondo dantesco, allo sfortunato viaggio di Ulisse che non al pellegrinaggio del prescelto di Beatrice.

§ 7. Il “giunco schietto” e la “pianta dell'irrequietezza”
 
Sempre il primo Canto del Purgatorio ci offre un ulteriore stimolo di riflessione allorché vi si descrive il rito di purificazione cui il poeta viene sottoposto su esortazione di Catone, da parte di Virgilio. L'esecuzione delle prescrizioni dell'antico saggio ottengono l'effetto voluto, lavando via le tracce del soggiorno infero dal viso di Dante, rigenerandolo per il nuovo percorso che l'attende.
Anche nel poema di Gilgamesh incontriamo la descrizione di una pianta, le cui proprietà rigenerative sono esplicitamente indicate nel suo nome stesso; l'indicazione per reperire questa pianta costituisce il dono che Utanapishtim porge a Gilgamesh quando questi, fallita la prova, si sta rimbarcando per tornare in patria (Tav. XI 263-282):
     
Utanapishtim così parlò a lui, a Gilgamesh:
"Gilgamesh, tu sei venuto stanco e abbattuto,
cosa posso darti da portare con te al tuo Paese?              265

Ti voglio rivelare, o Gilgamesh, una cosa nascosta,
il seg[reto degli dèi, ti vog]lio manifestare.

Vi è una pianta, le cui radici sono simili a un rovo,
le cui spine, come quelle di una rosa, punge[ranno le tue
     mani];
se tu puoi raggiungere tale pianta e prenderla nelle tue            270
    mani, [LACUNA ]".

Appena Gilgamesh udì ciò, egli aprì un 'f[oro]',
si legò [ai piedi] grandi pietre,

e si immerse nell'Ap[su, la dimora di Ea];
egli prese la pianta sebbene questa pu[ngesse le sue
    mani],

slegò quindi, le grandi piet[re che aveva ai piedi],                275
e così il mare lo fece risalire fino alla sponda.

Gilgamesh parlò a lui, ad Urshanabi il battelliere:
"Urashanabi, questa pianta è una pianta contro l'irrequietezza;

grazie ad essa l'uomo ottiene ...  nel suo cuore,
io voglio portarla ad Uruk , e voglio darla da mangiare       280
    ai vecchi e così provare la pianta.

Il suo nome sarà: Un uomo vecchio si trasforma in uomo
     nella sua piena virilità.
Anch'io voglio mangiare la pianta e così ritornerò giovane".

Ora, anche se la natura delle due piante dei due poemi è totalmente diversa, alcune caratteristiche sembrano comuni: entrambe sono prossime alle sponde dove si trova l'uomo che funge da nesso (secondo la terminologia da noi impiegata al paragrafo precedente), ed entrambe vivono in ambiente acquatico. Per quanto riguarda poi le capacità rigenerative, ecco come le descrive il poema mesopotamico (Tav. XI 283-291):

Dopo venti leghe essi fecero uno spuntino;
dopo trenta leghe essi si fermarono per la notte;

Gilgamesh vide un pozzo le cui acque erano fresche,           285
si tuffò in esse e si lavò;

ma un serpente annusò la fregranza della pianta,
si avvicinò [silenziosamente] e prese la pianta;
nel momento in cui esso la toccò, perse la sue vecchia
    pelle.

Gilgamesh in quel giorno sedette e pianse,              290
le lacrime scorrevano sulle sue guance.

 

Chi scrive non reputa sorprendente le analogie - al di là delle evidenti differenze - riscontrate nei due racconti: sembra appropriato che alle soglie di un luogo edenico, connessione tra due ere, si trovi una pianta capace di rigenerare; la rigenerazione sarà poi di tipo spirituale quando il viaggio ultramondano entra nel regno della Salvezza; sarà invece adatta alla vita animale, nel suo perpetuo cangiarsi, quando la ricerca si rivolge alla conservazione dell'individuo come appartenente al mondo terreno .

§ 8. Le stele e la nave di Urshanabi

La narrazione del poema mesopotamico riserva ulteriori interessanti confronti con la rappresentazione del Purgatorio dantesco, allorché soffermiamo la nostra attenzione alla sponda opposta a quella in cui vive Utanapishtim.
Colà vive il suo traghettatore, Urshanabi, che solo è in grado di superare il braccio di mare, detto delle “acque della morte” avendo esse la caratteristica di non poter essere toccate, pena la perdita della vita.
Sulla stessa sponda si trovano erette delle stele, mediante le quali, con un procedimento che ci risulta tuttaltro che chiaro, è consentito ad Urshanabi la possibilità di traghettare (Tav. X 104-105 e 184-185 già citati sopra):

E le steli di pietra [LACUNA ] della nave,
senza le quali non sono perco[rribili le acque di morte],           105
          

"Perché sono state divel[te le steli di pietra] a cui era           184
  attraccata la nave
e senza le quali non è possibile attraversare il mare?       185

Dalla versione paleo-Babilonese apprendiamo alcuni particolari in più su queste steli; infatti Surshanabu dice (115-118) :

"Le steli di pietra, o Gilgamesh, sono le mie guide,          115
in modo che io non tocchi le acque di morte.

Tu, nella tua furia, le hai frantumate;
le steli di pietra le ho con me, perchè mi guidano
     nell'acqua.

Quando i due poeti si trovano sulla spiaggia del monte del Purgatorio, vedono giungere un “vasello snelletto e leggero” (Purg. II 13-45), la cui propulsione è determinata da mezzi certamente non ordinari (Purg. II 31-33: “Vedi che sdegna li argomenti umani, / sì che remo non vuol, né altro velo / che l'ali sue, tra liti sì lontani»).
Se si cercano i dettagli in questo confronto, la materia sfugge: è vero che le acque (di morte anche nella Commedia, come testimonia l'episodio di Ulisse, che in esse appunto perisce) costituiscono l'insormontabile barriera al lido della “Vita” ed è anche vero che esse possono esser superate da un natante mosso da mezzi sovrumani (le stele o le ali dell'Angelo), ma poi le due narrazioni perdono ogni punto di contatto; possiamo aggiungere solo che le steli appaiono essere un carattere distintivo di Urshanabi, se il testo (Tav. X 90-91) specifica:

In verità, vi è, o Gilgamesh, il traghettatore di Utanapishti,      90        
Urshanabi;
Egli, che potrai riconoscere dalle steli di pietra, nel bosco
    taglia tronchi d'alberi.

 Cosa questa che ci autorizza a ritenere molto stretto il rapporto tra le steli ed il traghettatore, in un certo senso paragonabile a quello delle ali con l'Angelo. Non vogliamo, con queste parole, entrare nel tema - da ben altri autori affrontato - della rappresentazione figurata di un Essere che per definizione, essendo puro spirito, non può avere nè corpo nè membra, considerazione questa che già distanzia in modo netto il rapporto tra le ali ed il loro Proprietario da quello che può, per esempio, legare ad un essere umano un suo braccio; vogliamo piuttosto evidenziare come le steli - in questo senso analogamente alla rappresentazione figurata delle ali - siano dal testo indicate come mezzo ad esclusivo uso dell'Essere cui sono attribuite per la funzione necessaria, quella del traghettare.
Forse un particolare merita ancora attenzione: se si considerano le Colonne d'Ercole e l'importanza ad esse attribuita nel poema dantesco (Inf. XXVI 108-109: dov'Ercule segnò li suoi riguardi, / acciò che l'uom più oltre non si metta), allora le stele possono esser considerate in una nuova prospettive di confronto.
Nel poema classico la stele - qui segno di raggiungimento di un traguardo di conoscenza - è ricordata un'altra volta, nel proemio, dove si dice (Tav. I 7-8) :

Egli percorse vie lontane, (finché), stanco e abbattuto,
    (non si fermò).
[Egli fece incide]re tutte le sue fatiche su una stele
    di pietra.

Il confronto quindi tra le Colonne d'Ercole e le steli, considerando quanto esposto, deve fondarsi sull'idea di limite; infatti l'affermazione di Gilgamesh, nel poema sumerico GilHub., di voler porre la stele con il proprio nome e quello degli dèi nel kur di Hubaba, indica chiaramente il desiderio del raggiungimento di un limite. Dobbiamo tener presente che l'impresa di Hubaba è strettamente connessa al tema dell'immortalità, conseguibile, nel poema sumerico, mediante l'iscrizione del nome nella stele, in quello classico, attraverso il pasto delle carni di Hubaba che avrebbe dovuto rendere Enkidu immortale . Il limite, che, come a questo punto appare chiaro, dev'essere superato, è quello posto  fra la condizione umana in genere, breve e vana, e la longevità dei sovrani antidiluviani o l'immortalità del “sommamente saggio”.
Ma solo la menzione di quest'anelito bruciante - peculiare del personaggio Gilgamesh attraverso le due letterature - accanto alla menzione di un non plus ultra, ci conducono il pensiero all'Ulisse dantesco.
Recentemente Corti ha messo a fuoco con precisione l'origine oscura del racconto ripreso da Dante, che non inventa “tematiche a livello del mito” . L'analisi della studiosa procede nella ricerca dei nessi tra l'ambiente (arabo-ispanico - ed anche normanno) verosimilmente originario del tema del divieto del superamento delle Colonne d'Ercole e sulle vie che, attribuendone ad Ulisse la trasgressione, lo rendono colpevole di un comportamento considerato empio. Ulisse diviene nel Medioevo una figura ambigua, sapiens mundi, ma anche accusato di una colpa a noi oscura; secondo la Corti le sue caratteristiche, come sono delineate alla fine nel Canto XXVI dell'Inf., ne fanno un paradigma di certi pensatori “tesi a mettere in crisi con una vis speculativa nuova le nozioni tradizionali del sapere” e meritevoli di giusta condanna.
Di grande rilievo, per lo studio che stiamo svolgendo, è il paragrafo in cui la Corti traccia i rapporti interni dell'episodio di Ulisse con altri passi della Commedia, come lo smarrimento del poeta nella selva del Canto I dell'Inf., così come lo sono i versi 130-133 di Purg. I; in entrambi i casi si pone chiaramente in evidenza che l'uso dell'ingegno “senza la virtus etico-religiosa” costituisca colpa capitale e che sia proprio il viaggio ultramondano di Dante stesso a costituire il paradigma positivo speculare a quello negativo di Ulisse. La Corti infatti riprende la tesi che vede in Ulisse “l'originale doppio di Dante” . Nell'ambito della nostra ricerca vorremmo aggiungere come vi sia un rapporto dello stesso tipo tra l'Ulisse ed il Catone danteschi: mentre il primo diresse la sua vita verso la verità e la giustizia (Convivio IV vi 9-10), il secondo cercò la virtù e la conoscenza; entrambi hanno, davanti o sulle spiaggie del monte del Purgatorio l'apice della loro vicenda. Infine vorremmo, sulla spinta di quanto or ora affermato, rilevare come “l'opzione per una via segnata … dalla guida di Beatrice e di san Bernardo” comporti la differenza essenziale tra l'estremo viaggio di Ulisse ed il pellegrinaggio di Dante: l'intervento della Grazia Divina . Infine, forse non è fuor di luogo rilevare come, se sono le ali algeliche l'unico mezzo per l'attraversamento dell'Oceano, il parallelo tra i remi e le ali del “folle volo” (Inf. XXVI 125), costituiscano un ulteriore termine di raffronto per sottolineare l'empietà del tentativo di Ulisse, ovvero di chi è sprovvisto della Fede. Quest'ultima considerazione, per quanto strettamente legata alla Fede Cristiana, trova una singolare eco nel racconto del viaggio di Gilgamesh, come già accennato e come ora vedremo.   
Ricapitolando i dati raccolti, vediamo per primo il tema dell'uomo sapiens mundi, che risulta ben pertinente con il carattere primo di Gilgamesh, cfr. i versi di Tav. I 1-9 poc'anzi citati. L'anelito alla conoscenza (ed alla Vita, ma i due concetti non sono disgiunti) costituisce la connotazione principale dei due viaggi, quello dell'Ulisse dantesco e quello dell'eroe mesopotamico nel poema sumerico GilHub.; il terzo viaggio, quello di Dante, paragonabile a quello di Gilgamesh nel poema classico, perché alimentato dallo smarrimento e dalla paura, è voluto “colà dove si puote” (Inf. III 95), ed in tale carattere da questo e da quelli si distingue.  La domanda di Utanapishtim, sopra ricordata, circa l'impossibilità che gli dèi si ritrovino in assemblea per decidere dell'immortalità per Gilgamesh (Tav. XI 197-198), non essendosi verificato un evento con conseguenze comparabili a quelle del diluvio, che li ha costretti a riunirsi e deliberare, sancisce l'assenza di una “benedizione celeste” sulla ricerca condotta da Gilgamesh.
     
§ 9. Conclusione

Dopo aver passato in rassegna i tratti morfologici del racconto che presentano qualche analogia, possiamo cercare di trarre delle osservazioni finali.
Risulta chiaro che la ricerca dell'“immortalità”, per l'uomo che ha conseguito la consapevolezza della propria condizione, è connessa alla conoscenza. Non si vuole qui, con tale affermazione, affrontare un tema così vasto quale risulta esser quello dei rapporti vicendevoli tra conoscenza, soterologia ed immortalità nelle due culture, tema che richiede impegno ben più vasto. Vogliamo limitarci a cogliere il nesso conclusivo - vero arco di volta - che sostiene le narrazioni dei due poemi. Colui che soggiorna sulla sponda della salvezza è “libero” ovvero conosce i disegni degli dèi; quindi il concetto di libertà è da intendersi quale fedeltà ad una virtù che è proiettata nel cielo (le quattro stelle che illuminano Catone).
Per converso, colui che non conosce, non essendo assistito, corroborato, “illuminato” dal favore divino, è destinato a veder fallire la sua ricerca della conoscenza. Seppur vi è una differenza tra i due re, l'Ulisse di Dante e Gilgamesh, essendo solo il primo decisamente dannato, sembra tuttavia egli il più vicino all'eroe mesopotamico, piuttosto che il pellegrino favorito da Beatrice. Dei tre personaggi infatti, è solo quest'ultimo che consegue la pienezza dei risultati sperati.

Consegnato per la stampa: 1993

 


Aggiornamenti (2009)

Tre edizioni del materiale di Gilgamesh sono apparsi dopo quella di Pettinato del 1992, che qui è stata assunta come punto di riferimento.

1. In quello stesso anno Jean Bottéro diede alle stampe una nuova traduzione di tutto il materiale in lingua accadica; questo libro, con la pregevole prefazione del Collega Prof. Claudio Saporetti, è ora apparsa per le Edizioni Mediterranee: J. Bottéro, L'Epopea di Gilgameš – L'eroe che non voleva morire, Roma 2008.

2. Il Collega Prof. Dr. Andrew George, della School of Oriental and African Studies (University of London), ha fatto il punto sullo stato delle fonti su tutta la materia di Gilgamesh: nel 1999 ha pubblicato la traduzione in inglese del materiale noto (A. George, The Epic of Gilgamesh, Penguin Classics, London 1999), facendola seguire nel 2003 dall’edizione critica del testo cuneiforme (A. George, The Babylonian Gilgamesh Epic: Critical Edition and Cuneiform Texts, Oxford University Press, Oxford 2003).

3. A tutt’oggi la più completa edizione è tuttavia quella del Prof. Dr. Stefan Maul della Ruprecht-Karls-Universität Heidelberg (S. Maul, Das Gilgamesch-Epos, C. H. Beck, München 2005).

Nuovi studi:

  1. Non ha ancora trovato conferma la notizia fornita da Pettinato nel Sole – 24 ore del 31 marzo 1993 e da me riferita alle nota 7 e 49.
  2. L’articolo annunciato alla nota 27 è apparso: P. Mander, Designs on the Fara, Abu-Ṣalabīkh and Ebla texts, Annali dell’Istituto Universitario Orientale (Napoli) 55 (1995) pp. 18-29.
  3. È importante l'articolo di Tzvi Abusch, The Epic of Gilgamesh and the Homeric Epics, in: R. M. Whiting ed., Mythology and Mythologies, The Neo-Assyrian Text Corpus Project – Melammu Symposia II, Helsinki 2001, pp. 1-6. Questo studio evidenzia dettagliatamente i punti di affinità tra queste opere.

 

Infine, per una sintesi del pensiero e della religione dell'antica Mesopotamia, sia sumerica che assiro-babilonese, da ultimo: P. Mander, La religione dell'antica Mesopotamia, Carocci Quality Paperbacks, Roma 2009.


Sulla fama di Virgilio nel Medioevo, vd. Domenico COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo,  Firenze, La Nuova Italia editrice, 1943.

Dante stesso aveva appellato Virgilio, all'inizio del viaggio, Inf. II 140 «tu duca, tu segnore, e tu maestro».

Ulteriori considerazioni sulla pianta “dell'irrequietezza” si troveranno nello studio di PETTINATO menzionato alla n. 11.

Vd. PETTINATO Gilg. p. 266-269; p. 379 (dove il primo “Urshanabi” dev'esser letto: “Surshanabu”) e p. 426.

Nella versione ittita inoltre (vd. Giuseppe del MONTE in PETTINATO, Gilg.  p. 293), Urshanabi risponde a Gilgamesh che vuol esser traghettato: «Me facevano attraversare quelle due statue di pietra»; il testo impiega l'ideogramma sumerico ALAM “statua”.

Ricordiamo che steli venivano innalzate dai sovrani mesopotamici quando raggiungevano, vincitori, il litorale di un mare - da intendersi ancora sia come limite estremo, sia come traguardo.

Vd. PETTINATO, op. cit. alla nota 7.

Op. cit. nota 2

Ivi p. 113

Ivi, p. 136-138

Ivi p. 144-145.

Ivi p. 145

Guido VITALI, nel suo commento alla Divina Commedia (Garzanti, Milano 1952) rileva come tutto l'episodio di Ulisse sia marcatamente connotato in senso negativo: a) il superamento degli affetti terreni (Inf. XXVI 94-99) non conseguito nel nome del Cristo (Matteo XIX 29); b) la descrizione del viaggio che inizia volgendo la poppa al Sole (Inf. XXVI 124) che «mena dritto altrui per ogni calle» (Inf. I 18), dirigendo verso sinistra (opposta alla destra, simbolo del Bene) e viene computato con lunazioni (Inf. XXVI 130-131; sui significati annessi alla Luna nella Commedia, cfr. Inf. X 79-80; IX 44; XX 129).


Françoise BRUSCHWEILER, Inanna. La deesse triomphante et vaincue dans la cosmologie Sumerienne. Leuven, Éditions Peeters, 1987.

La studiosa stessa lo definisce, con espressione felice: habitat

Rappresentato in questa maniera, il kur è descritto in un mito (di cui la BRUSCHWEILER fornisce l'edizione) quale fonte di conoscenza, connessa quest'ultima sia all'attività procreativa sessuale che al pasto vegetale. L'autrice pone il problema del confronto con il racconto biblico dell'Eden e di Adamo ed Eva; vd. op. cit. pp. 57-63 con riferimenti anche al mito “Enki e Ninhursanga”.

Sull'aspetto “mediano” del Purgatorio vd. Jaques LE GOFF, La naissance du Purgatoire, Paris, Éditions Gallimard, 1981; trad. it. La Nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi, pp. 9-11.

BRUSCHWEILER, op. cit. p. 64.

Come traduce PETTINATO, Gil. pp. 406 sg.

Vd. PETTINATO, Gil., p. 55

Vd. sopra n. 7.

Bendt ALSTER, Dilmun, Bahrain, and the alleged Paradise in Sumerian Myth and Literature in Daniel. T. POTTS ed. Dilmun. Berliner Beiträge zum Vorderen Orient 2. Berlin, D. Reimer Verlag, 1983, pp. 39-74

ALSTER, ivi p. 45.

Op. cit. pp. 46-47.

Vd. lo scrivente, Designs on the Fara, Abu-Salabikh and Ebla Tablets, A. I. U. O. di prossima apparizione.

Il paese di Dilmun è strettamente correlato al dio Enki e all'Apsû: il dio infatti fa scaturire fonti di acqua fresca nell'isola.

Non siamo d'accordo con ALSTER quando nega il carattere “paradisiaco” di Dilmun, accostandolo a mitologemi che descrivono le fasi più antiche dell'umanità che devono intendersi come sviluppo di premesse e non atti di creazione. Un'interessante lettura del mito si trova in Geoffrey S. KIRK, Il mito, trad. it. Liguori editore, Napoli 1980, pp. 106-121. Vd. inoltre BRUSCHWEILER, op. cit. pp. 57-63 citate alla nota 21.

BRUSCHWEILER, ivi p. 64.

Secondo le parole di Bruno NARDI, Il mito dell'Edén in: Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 313 sg.

Vd. NARDI, ibid. e pp. 321 sg.

espressione resa poi a principio (S. Gerolamo), donde S. Tommaso, ribadendo la locazione orientale dell'Eden, ne afferma la priorità temporale nello svolgimento della Creazione: NARDI, ivi pp. 319 sgg.

Cfr. Jean van DIJK, Une incantation accompagnant la naissance de l'homme, Or NS XLII (1973) pp. 502-507.

Vd. van DIJK, ibid. pp. 505-506.

Vd. PETTINATO, I Sumeri (cit. nota 8), pp. 94 sgg.

Vd. PETTINATO, Gilg. pp. 15-16 ed Erica REINER, The Etiological Myth of the “Seven Sages”, OrNS XXX (1961), pp. 8-11 sui due termini apkallum  edummânum).

Vd. REINER, ivi p. 9

Il formulario ana ittišu (Benno LANDSBERGER, MSL I) elenca (p. 44) alcune espressioni relative a trovatelli, tra cui una molto simile: túl-ta-pà-da = ina burti atûšu “in dem Brunnen ist er gefunden”; l'impiego del verbo è farebbe propendere per una distinzione di concetto.

Il passo sembra quasi adombrare ai sublimi versi di Salvatore QUASIMODO, Ed è subito sera: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: /ed è subito sera”.

La condizione dell'uomo vista come prigioniero suscita indubbiamente un ulteriore richiamo - dopo il confronto tra l'epopea di Gilgamesh ed il Simposio svolta da HELD, cui poc'anzi abbiamo accennato - all'opera di Platone, in particolare al famosissimo mito di Er; non intendiamo addentrarci nella questione, a nostro avviso comunque di ardua soluzione, circa la consistenza dei rapporti tra il pensiero del filosofo greco e la mitologia mesopotamica o vicino-orientale in genere. Riteniamo comunque opportuno rilevare che somiglianze formali non necessariamente sottendono concezioni simili.

Van DIJK, loc. cit. p. 505, riporta l'espressione kār mūti “quai de la mort” cui sarebbe ancorata la “nave” del nascituro; di particolare interesse sono i versi 18-21 del rituale ivi edito, relativi al passo in cui s'invoca la protezione della dèa-madre baniāt kalîni, ana šigarim “qui a assisté à la formation de nous touts pour (porter) le joug (de la servitude)”

* Le abbreviazioni e sigle sono quelle usuali in assiriologia, elencate nei grandi vocabolari: Chicago Assyrian Dictionary e Wolfram von SODEN, Akkadisches Handwörterbuch.

Cfr. George F. HELD, Parallels between the Gilgamesh Epic and Plato's Symposium, “Journal of Near Eastern Studies” XLII (1983) pp. 133-141.

Gerald K. GRESSETH, The Gilgamesh Epic and Homer, “The Classical Journal” LXX (1975) 4 pp. 1-18; cfr. inoltre, da ultima, Maria CORTI, Percorsi dell'invenzione, Torino, Einaudi, 1993, pp.113 sgg.

Si veda l'articolo di Gennaro d'IPPOLITO sulle relazioni tra Eneide e mondo omerico s. v. “Odissea”  : AA. VV., Enciclopedia Virgiliana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987, pp. 821-826.

Su quest'ultimo personaggio, quale autore dell'epopea classica di Gilgamesh, vedi da ultimo, Giovanni PETTINATO, La Saga di Gilgamesh. Milano, Rusconi, 1992, pp. 14-16  [d'ora in avanti abbreviato in: PETTINATO, Gilg.].

GRESSETH, ivi p. 16 n. 26.

Rinviamo, a titolo indicativo, alla bibliografia citata da PETTINATO: Gilg. pp. 417 sgg.

L'edizione del ms. è in via di elaborazione; notizia del suo contenuto è stata fornita da PETTINATO nel “Sole - 24 ore” di Domenica 31.i.1993 p. 23.

Thorkild JACOBSEN, The Sumerian King List, Chicago 1939. Si considerino, p. es., i casi dei primi 5 sovrani, il cui regno è dato rispettivamente per: 28.800, 36.000, 64.000 anni, 43.200, 28.800 e 36.000 anni.

“Sommamente saggio”, in Accadico: atra-hasīs, è il nome di un poema in cui si tratta della vicenda appunto del “Noè” che salva l'umanità e le specie viventi dal diluvio universale.

Utanapishtim propone a Gilgamesh di restare sveglio una settimana; l'eroe cade invece subito addormentato ed il suo sonno dura sette giorni, per ognuno dei quali Utanapishtim traccia un segno, dopo aver lasciato sul desco dell'eroe un pane. Osserva giustamente Jeffrey H. TIGAY, The Evolution of the Gilgamesh Epic, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982, p. 5, che la prova dimostra all'eroe che voleva superare la morte, come in realtà non fosse egli in grado neppure di resistere al sonno; si vedano colà gli interessanti accostamenti sugli aspetti del sonno come imago mortis.

Anche questo aspetto del poema è stato riconsiderato; è immminente la pubblicazione di uno studio di PETTINATO sul tema. Si veda intanto PETTINATO, Gilg. pp. 46-48.

Cfr. PETTINATO, Gilg. pp. 312-323; il poema verrà qui abbreviato come: GilHub. Il poema narra l'impresa compiuta dai due eroi, Gilgamesh ed Enkidu, contro Hubaba: l'episodio sarà poi rielaborato ed inserito nell'epopea classica.

Nel presente studio - tranne dove esplicitamente indicato - si farà riferimento, per i poemi sia in lingua accadica che sumerica alla nuova completa edizione di PETTINATO,Gilg.

Tzvi ABUSCH, Ishtar's Proposal and Gilgamesh's Refusal: an Interpretation of the Gilgamesh Epic, Tablet 6. Lines 1-79, “History of religions” XXVI/2 (1986) pp. 173 sgg.

Per quanto concerne l'epica sumerica, anche i poemi del ciclo di Aratta si svolgono prendendo spunto dalla contesa tra il re di Uruk ed il sovrano di Aratta appunto, per quale delle due città dovesse esser la sede prediletta della dèa Inanna

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