| § 1. Forme della Tradizione Primordiale in Mesopotamia Il punto di partenza da  cui inizio questo intervento è il postulato dell’unicità della Tradizione  Primordiale,  che si manifesta in forme  diverse, tale da consentirLe di adattarsi alle epoche, alle culture e alle  civiltà, ai popoli e alle genti in tutti i continenti e in tutti i tempi. Non  ci stupisce, pertanto, osservare come il quadro, che l’antica Mesopotamia presenta,  sia radicalmente diverso da quello che abbiamo visto nel pensiero egizio. L’ambiente  geografico in cui si è sviluppata la civiltà mesopotamica è molto diverso da  quello dell’antico Egitto.  La  Mesopotamia è costituita da vasti spazi aperti, in cui genti diverse, sia per  lingua che per tradizioni, si sono insediate. Viene da pensare al racconto  biblico della Torre di Babele (che proprio qui, in Mesopotamia, fu ambientato)  e a quanto scrisse Henri Frankfort: “i popoli della Mesopotamia trovarono il  loro centro aggregante nel dio Enlil, il re degli dèi, il cui nome significa,  in sumerico, “Signore-Vento”(“the early inhabitants of Mesopotamia  expressed their consciousness of solidarity in the figure of the god Enlil”; Kingship and the Gods, Chicago 1948:  216). Mentre  la stretta fascia verde sulle due sponde del Nilo favorì fin dagli inizi la  formazione di grandi entità politico-culturali a base territoriale (il Basso e  l’Alto Regno), la pianura alluvionale tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate,  vide il sorgere di una moltitudine di città-stato, che già nel III millennio a.  C. apparivano tra loro in condizione di guerra endemica.  Solo molto più tardi, dalla seconda metà del  II millennio a. C. in poi, si crearono i vasti stati territoriali.  Ma  se questo è il quadro che si riscontra sul piano storico-politico, sul piano  religioso si ritrova invece l’unità. Gli dèi sono grandi forze cosmiche (non  necessariamente fisiche) che si manifestano anche come stelle. Il cielo  stellato si riflette in terra: infatti ogni città-stato, come una stella, era  sede di una particolare divinità del pantheon (il dio cittadino, il patrono, o,  meglio: il “dio poliade”), in modo che il paese apparisse come la proiezione  della mappa del cielo stellato divino sul piano terreno e che – come il  pantheon trovava la sua unità nel suo vertice, costituito dal re degli dèi,  “Signore-Vento” – esso fosse unito attorno al santuario della città santa di  Nippur, dove, appunto, aveva la sua sede quel dio. Così  la città di Ur era sede del dio-Luna Nanna / Suen (di ogni divinità fornisco  prima il nome sumerico e poi quello babilonese), la città di Larsa del dio-Sole  Utu / Shamash, Girsu del dio Ningirsu, Umma del dio Shara, ecc. In ogni città  il dio poliade aveva la sua sede (il tempio), in cui risiedeva insieme alle  divinità subalterne del suo seguito e della sua famiglia. Il principe o il re  della città era l’amministratore del dio poliade e governava in suo nome. Una  struttura ben diversa da quella dell’Egitto, in cui il re, il faraone, era egli  stesso un dio.
 L’ideologia  della singola città-stato, che, conseguendo una momentanea fase di fortuna  politico-militare si trovava a dominare avendo vinto le rivali, concepiva  questo successo come la delega, che “Signore-Vento” affidava al dio cittadino patrono  della città stessa, affinché governasse tutta il paese per conto del re degli  dèi e di tutto il pantheon. Nell’ultimo secolo del III millennio a. C., quando  la III dinastia di Ur estese il suo dominio su quasi tutta la Mesopotamia, si  riteneva che il re degli dèi, “Signore-Vento” avesse affidato il governo del  cosmo a suo figlio il dio-Luna, che proprio in Ur aveva il suo santuario. Conseguenza  diretta di questo stato di cose fu il rilievo attribuito dalle accademie  scribali alla mitologia del dio poliade, ovvero del patrono cittadino, a  scapito dell’attenzione ai grandi sistemi mitologici teogonici e cosmogonici  (che non furono copiati e quindi trasmessi), nei quali il dio cittadino aveva  un ruolo di scarso rilievo, se mai ne aveva uno.Certamente qualcosa abbiamo: pochissimi  testi di miti teo-cosmogonici, e molte allusioni in punti diversi del corpus mitologico, ma la visione  complessiva che ne traiamo è molto limitata.
 § 2. La teogonia del dio-Luna Il  mito delle nozze di “Signore-Vento” con la dea Ninlil (databile almeno alla  fine del III millennio a. C.) costituisce un esempio di “mitologia cittadina”,  in quanto racconta le circostanze della gestazione e nascita del dio-Luna,  dalle quali questi assunse le sue caratteristiche, ma al tempo stesso è un raro  esempio di teogonia, poiché le “mitologie cittadine” non si spingevano di norma  così indietro nel tempo, tanto da riferire sull’origine della divinità poliade. “Signore-Vento”  scorge la bella dea Ninlil che si bagna nel fiume: con l’irruenza del suo  temperamento, la prende con la forza. L’assemblea degli dèi tuttavia  disapprova  questo atto e condanna il dio  ad un soggiorno agli inferi. A noi moderni questo potrà sembrare paradossale,  ma la povera Ninlil, in quanto divenuta sposa del dio, deve seguirlo nel suo  esilio; la dea oltretutto è in stato interessante, dal momento che aspetta il  dio-Luna da “Signore-Vento”. I  tempi sono maturi e “Signore-Vento” non vuole che suo figlio nasca agli inferi;  poiché è legge di quel mondo di tenebra che nessuno possa lasciarlo se non ci  sia un altro che lo sostituisca, “Signore-Vento” ingravida altre tre volte  Ninlil, che così genera tre divinità che sostituiranno lei stessa, suo figlio  il dio-Luna e “Signore-vento” negli inferi.
 Già  solo questo dettaglio del racconto deve metterci in guardia da interpretazioni  antropomorfistiche: gli dèi non sono marionette sul palcoscenico del mito, ma  forze cosmiche rappresentate in forma umana per comodità di racconto. Non è  possibile che una donna, già incinta, possa essere nuovamente fecondata e che  possa partorire i frutti dei più recenti accoppiamenti, restando sempre in  stato interessante del figlio della prima unione. Le  due divinità, “Signore-Vento” e Ninlil, possono ora lasciare gli inferi e il  dio-Luna nasce alla luce del Sole: tuttavia egli conserverà per sempre un  aspetto infero, traccia del suo soggiorno laggiù: è la Luna nuova, che non si  vede nel cielo. Consideriamo  quest’ultimo aspetto. La posizione del dio-Luna appare – essendo egli sia  invisibile (Luna nuova) che visibile (fasi lunari successive) – come trait-d’-union tra l’invisibile ed il  visibile. In effetti, nella struttura del pantheon, riscontriamo un gruppo di  dèi, le somme divinità,che sono invisibili: si veda appresso, § 4. Il dio-Luna  è la prima divinità visibile (in quanto appare da una fase di invisibilità). Il  dio-Sole e la dea del pianeta Venere – altre divinità di luce – sono suoi  figli: quindi il dio-Luna appare come un ponte tra gli dèi invisibili e quelli  visibili, che da lui discendono. Non si  può non pensare (e tracce di continuità sono presenti) al “mondo sub-lunare  della generazione” presso i filosofi della tarda antichità, quali Giuliano  Imperatore, Porfirio e altri. Essi consideravano il cielo della Luna il limite  sotto il quale si svolgeva il mondo del divenire (la Luna stessa appare con  forme cangianti) e al di sopra del quale si trovava il mondo immobile degli dèi  eterni.
 § 3. La teogonia del dio Marduk Un’altra  importante teogonia sopravvissuta perché legata alla mitologia di un dio  poliade è quella sulla nascita di Marduk. Essa costituisce l’incipit di un famoso poema, “Quando in  alto” (queste le prime parole con cui inizia), composto nell’XI sec. a. C.  riutilizzando materiale mitico relativo al dio Ninurta, figlio di  “Signore-Vento” – in una tradizione alternativa a quella in cui il dio-Luna è  suo figlio. Quest’incipit fu così sorprendente per i  filologi che riuscirono ad interpretare il poema alla fine del XIX secolo, che  si parlò di “Poema babilonese della Creazione”, mentre la descrizione  dell’inizio del cosmo e della genealogia degli dèi fu inclusa nel poema solo  per celebrare l’origine di Marduk.
 Ecco  il celebre incipit:
 
 “Quando in alto il Cielo non era ancora stato nominato,
 (e) in basso la terra non era ancora stata chiamata per  nome,
 (quando) l’Apsû primordiale(= l’oceano di acque dolci  sotterraneo da cui si riteneva sgorgassero i fiumi), loro progenitore
 Mummu e Ti’amat (= la distesa delle acque salmastre), che  diede vita a tutti loro,
 (ancora) mescolavano insieme le loro acque,
 e non s’era formata terraferma da pascolo né s’era ancora  vista una palude piena di canne,
 quando nessuno degli dèi era venuto in essere,
 e non erano ancora stati chiamati per nome e i loro destini  non erano ancora stati stabiliti,
 a quel tempo dentro di loro (= Apsû e Ti’amat) gli dèi  furono creati.
 Lahmu e Lahamu (= i pilastri della porta cosmica) vennero in  essere e furono chiamati per nome.
 Prima ancora che diventassero grandi e crescessero,
 An-shar (= la Totalità del Cielo) e Ki-shar (= la Totalità  della terra) furono creati e li superarono per statura.
 Vissero per molti giorni, sommando anni (su anni).
 Loro erede fu Anu, rivale dei suoi padri;
 Anu, il primogenito, fu davvero pari ad Anshar.
 E Anu generò Nudimmud (= il dio demiurgo Enki / Ea, padre di  Marduk), a lui simile.”
 Molto  si dovrebbe dire sui concetti espressi in questi versi, ma ci preme  sottolineare il ruolo della parola, ovvero del nome, quali possibilità di  manifestazione. Ogni cosa trae origine dal suo nome, che ne connota l’essenza: nomina sunt essentia rerum “i nomi sono  l’essenza delle cose”, dicevano gli antichi nel nostro Occidente. Vedremo al §  4 come la “Parola” sia appannaggio del re degli dèi.Coppie  di opposti (come si evince dai due miti teogonici che stiamo descrivendo) connotano  il cosmo mesopotamico:
 
 
                  manifestato  – non-manifestato, morte–vita, caos–ordine. Quest’ultima  coppia costituisce lo scopo del poema “Quando in alto”, poiché Marduk (come  Ninurta prima di lui) deve affrontare le forze del caos per sconfiggerle e dare  forma ordinata ed armoniosa all’universo. In questa veste il dio  “Signore-Vento”, dopo il conseguimento della vittoria, gli delega il governo  del mondo (Marduk era il dio poliade di Babilonia, che, in quel periodo, iniziò  un’ascesa verso il dominio sulla Mesopotamia, confrontandosi con l’impero  assiro). Marduk  è quindi colui che combatte le forze del caos, quali sono, nella vita  ordinaria, gli insuccessi, le difficoltà familiari ed economiche, le malattie,  gli infortuni e quant’altro rende infelice la vita umana. Tutte queste sventure  sono opera di demoni o spettri, manifestazioni del caos, che la divina forza  esorcistica di Marduk deve ricacciare nelle tenebre da cui sono scaturiti. Il  mito narrato nel poema “Quando in alto” si cala, per così dire, nella realtà  quotidiana; o, meglio (usando la terminologia storico-religiosa), “fonda” la  realtà dell’esorcismo.
 § 4. La struttura del pantheon Il  pantheon appare strutturato lungo un asse verticale, che parte dalla volta del  cielo e discende fin nelle profondità sotterranee (abisso, probabilmente  proprio dal sumerico Ab-zu “oceano  d’acque dolci sotterraneo”). L’asse è scandito in livelli, ognuno dominio di  una divinità. Al sommo troviamo la volta del cielo; questa è il dominio del  dio An / Anu. An vuole appunto dire “Cielo”, ma l’ideogramma con cui è  scritto può anche esser letto dingir “divinità”: un’ambiguità certamente voluta e densa di significato.Privo quasi di miti in cui appaia come personaggio attivo, è  l’antenato degli dèi (ma anche dei demoni) e il detentore della regalità  suprema, seppur inattiva. Questo aspetto lo pone distaccato al di sopra delle  vicende cangianti dell’universo, irraggiungibile e distante come la sommità del  cielo, suo dominio. An è invisibile, come il cielo di notte, e solo la luce  delle stelle ne rivela la presenza. Il moto delle stelle permette all’uomo di  accedere alla prima norma, la misura che le altre tutte comprende, la durata  dell’anno (annus sideralis, ancor  oggi usato come misura precisa negli osservatori astronomici).
 Figlio  di An e re degli dèi è – come s’è detto – il turbinoso dio “Signore-Vento”; suo  dominio è l’atmosfera che, dall’alto dei cieli, tocca la superficie della terra  e consente la vita degli esseri viventi. Anche il vento, al pari del cielo, è  di per sé invisibile: ne cogliamo gli effetti, ma non possiamo vederlo. Enlil è  imperscrutabile, violento. Il sovrano degli dèi, supremo reggitore  dell’universo, quindi, per via del suo carattere di intermediario tra  l’irraggiungibile Cielo e il mondo degli uomini, non a caso è definito  “mercante” (epiteto che noi non considereremmo onorevole, forse pensando alla  cacciata dei mercanti dal Tempio ad opera di Gesù), ma che ben definisce la sua  funzione nel cosmo.
 La sua parola è legge tra gli dèi: il grande inno sumerico  composto in onore del dio, ad un certo punto recita:
 “ Allorché egli (= “Signore-Vento”)  esercita in maniera perfetta / il suo potere come Signore e come Re, /  spontaneamente gli altri dèi si prostrano innanzi a lui / ed obbdiscono ai suoi  ordini senza proteste!” Abbiamo  anche visto come Enlil fosse intimamente connesso all’aria, elemento intermedio  tra volta celeste e terra, e quindi al soffiare del vento, al respiro e al  fiato. Il dio infatti è  considerato colui che ha elargito la vita nell’universo (la vita viene  identificata col soffio del respiro); inoltre un’emissione  di fiato particolare è costituita dalla “parola”: non a caso, – ed emerge  ancora un carattere di medianità (analogo a quello dell’atmosfera) – dal  momento che la parola rende manifesto, per colui che ascolta, l’altrimenti  irraggiungibile ed invisibile pensiero nella mente del suo interlocutore.  Coerentemente essa ricade pertanto nel dominio di Enlil, “Signore-vento”. La  parola di Enlil pertanto costituiva il perno dell’universo tutto, umano e  divino.
 Le nozze del dio e la nascita del dio-Luna rappresentano  distintamente un asse verticale, costituito dalla discesa del dio, che tocca la  terra o finanche gli inferi dal sommo cielo di An, dal quale è stato generato.Un asse verticale dunque, connette il Cielo alla terra, e  questa connessione è realizzata dal “soffio”, “vento”, “spirito”. Un elemento  del grande tempio di “Signore-Vento” a Nippur è chiamato “legame di Cielo e  terra”, ed in esso un poema narra che il dio scava un solco ed estrae il  “principio” dell’umanità.
 Concludo l’esposizione sulle caratteristiche di questo dio  confrontandolo con la divinità egizia Shu, l’atmosfera, che separa Cielo e  terra: questo raffronto da solo basterebbe a mostrare la diversità  dell’impostazione della forma assunta dalla Tradizione Primordiale nelle due  aree, l’Egitto e la Mesopotamia.
 Terzo livello, infine,  dell’asse verticale è quello sotterraneo dell’oceano delle acque dolci,  chiamato Abzu, come s’è detto, da cui scaturiscono, tra l’altro, il Tigri e  l’Eufrate. Anche questo livello è  invisibile, essendo posto sotto il suolo, ed in esso si colloca il regno del  dio demiurgo, Enki (sumerico) / Ea (babilonese), il cui nome sumerico è di  significato incerto: “Signore della terra”, secondo alcuni, come Th. Jacobsen,  ma c’è chi autorevolmente contesta tale interpretazione (W. G. Lambert), e  “vita” secondo la radice semitica. Enki è il dio ordinatore dell’universo,  signore di sapienza, dei riti purificatori e della magia.
 L’acqua, ammorbidendo  l’argilla, la rende plasmabile: in questo senso si deve vedere l’azione  demiurgica, trasformatrice e quindi anche purificatrice del dio.
 Altra divinità creatrice è Ninhursanga  “Signora del pié-di-monte”, dea madre la cui forza conduce il seme a  germogliare e il concepimento a giungere alla generazione. Anche la sede della  dea è invisibile, agendo essa sia sul seme interrato, sia nel profondo  impenetrabile dell’utero. Attraverso  Ninhursanga la forza divina discende nel buio sotterraneo per produrre la  formidabile propulsione che genera la vita. Il divino, calato nella terra, dà  come risultato il sorgere della vita individuale, l’ininterrotta catena della  generazione.
 A  queste quattro somme divinità, An, Enlil, Enki e Ninhursanga, seguono gli dèi  della “seconda generazione”: 1. il dio-Luna ed i suoi figli: 2. il dio-Sole, 3.  la dea del pianeta Venere, 4. il dio della tempesta (il bagliore della  folgore).  Tutte  queste sono divinità di luce: infatti esse rendono manifesto l’universo.  Ai  livelli invisibili, quindi, nell’ordine di sequenza “principio – effetto”,  segue il livello della visibilità.Appartengono a questa  fascia anche: il dio guerriero Ninurta, il dio esorcista Asanluhi (identificato  in seguito con Marduk, che poi, dalla fine del II millennio a. C., assumerà  anche i caratteri di Ninurta), dio ordinatore del mondo dopo la vittoria  conseguita sul demone Asakku.
 § 5. L’immortalità Il  Canto XXIX del Paradiso di Dante Alighieri costituisce il miglior manuale per  comprendere il funzionamento di un sistema cosiddetto “politeistico” (l’uso di  questo termine è giustamente soggetto a critiche nel pensiero scientifico  attuale). Sappiamo che egli si rifece all’opera dello Pseudo-Dionigi  l’Aeropagita (I sec. d. C.): “La gerarchia Celeste”, in cui si espone un sistema  in cui ogni livello attinge santità dal livello superiore.Il “politeismo” mesopotamico mostra la  stessa struttura: esistono poemi in cui si narra di viaggi cultuali intrapresi  dagli dèi per recarsi al santuario di Nippur per rendere omaggio al dio “Signore-Vento”.  Molto probabilmente le statue di queste divinità lasciavano il proprio tempio e  venivano cerimonialmente condotte, via fiume, fino a Nippur. Ma nel corso  dell’esorcismo appare lo stesso sistema: dopo aver offerto la propria persona  al dio (l’esorcista infatti esclama: “Io sono Marduk!”) e aver celebrato i riti  profilattici (per non essere lui stesso attaccato dai demoni che infestano il  suo paziente), l’esorcista, giunto al capezzale di quest’ultimo, declama un  mito. In esso si narra di come Marduk, visto il paziente preda dei demoni,  corresse da suo padre (= il livello superiore), il dio demiurgo Enki / Ea e gli  chiedesse aiuto. Enki / Ea gli risponde che tutto ciò che sapeva gliel’ha  trasmesso e quindi Marduk andasse sereno al confronto coi demoni; tuttavia il  demiurgo suggerisce al figlio un rituale, specificando i materiali da impiegare  e le formule esorcistiche da pronunciare: ecco la forza superiore che è  trasmessa.
 Risulta quindi evidente  che la trasmissione della forza divina passa dai livelli più alti a quelli  inferiori. Un concetto così fondante non è certamente limitato alla gerarchia  celeste, e infatti analoga concezione governa la vita dell’uomo.Possediamo  uno strano poema sumerico, “Inno alla dea Nungal” in cui si narra di un tempio,  posto in prossimità di quello di “Signore-Vento” a Nippur, in cui l’uomo che ha  fatto allontanare da sé il suo “dio personale” (anche questa denominazione non  è scevra da motivate critiche), è detenuto e patisce la carcerazione. I  patimenti comunque lo redimono e, dopo aver superato un’ordalia fluviale, che  dimostra che egli è ritornato ritualmente puro, l’uomo può finalmente  riconciliarsi col proprio “dio personale”.
 Mircea  Eliade ha espresso esplicitamente l’opinione che il “dio personale” altro non  sia se non l’elemento divino nell’essere umano. Oggi, grazie a numerosi studi,  tra cui spiccano quelli di Jean Bottéro e di Tzvi Abusch, sappiamo che il  sangue del dio ucciso in occasione della creazione dell’uomo, allorché il dio  demiurgo e la dea madre con esso impastarono da l’argilla con cui plasmarono la  nuova creatura, costituisce l’elemento divino in quest’ultimo.
 Gli  dèi inferiori erano stremati dallo sforzo di mandare avanti l’universo e  scesero in sciopero circondando minacciosi la residenza di “Signore-Vento”. Fu  allora che il dio demiurgo trovò la soluzione che mise d’accordo le parti:  creare un altro essere, che si sobbarcasse il pesante lavoro degli dèi  inferiori, rendendo finalmente questi ultimi liberi di soggiornare in cielo con  gli dèi sommi. Quest’essere è l’uomo e quindi, come ha capito genialmente Piotr  Michalowski, ad esso è affidata la posizione centrale nell’universo, avendo  egli assunto un compito che prima era degli dèi. Tuttavia il dio che capitanò  la rivolta pagò il fio e fu ucciso: abbiamo detto cosa si fece del suo sangue. L’umanità crebbe e,  siccome era immune dalla morte per vecchiaia (come ha capito Wilfred George  Lambert), era divenuta incredibilmente numerosa. “Signore-Vento” decise di  sterminarla col diluvio universale, ma il dio demiurgo suggerì al Noè  mesopotamico, Ziusudra (sumerico: = “vita di giorni lunghi”) / Uta-napishtim  (babilonese: “ha trovato la vita”), di costruire un’arca in cui salvare la sua  famiglia e le specie animali. “Signore-Vento” scatenò gli elementi e, quando le  acque cominciarono a ritrarsi, lo scoprire che ancora esisteva un essere  vivente capace di prestare culto agli dèi, piacque al re degli dèi, che donò a  Ziusudra / Uta-napishtim l’immortalità. § 6. La composizione dell’essere umano (psicologia  mesopotamica) Oppenheim aveva esposto nel suo Ancient Mesopotamia (di cui esiste la traduzione italiana, edita da  Newton Compton) la teoria di un sistema di anime multiple esterne che si  configura secondo le seguenti linee principali. L’uomo appare “protetto” da  quattro entità, che assicurano a lui ed a tutto ciò che compone il suo ambito –  persone e beni – uno stato di benessere. Essi sono: 
                  ilu (maschile)          lamassu (femminile)ishtaru (femminile)       shedu (maschile)
 Non  necessariamente i quattro nomi ricorrono insieme, anzi, spesso nei testi uno o  più sembrano essere impiegati per indicare tutti e quattro. Deve essere qui  sottolineato, in particolare, poiché non possiamo diffonderci, il riferimento  che lo studioso ha tracciato fra queste quattro entità e quelle del mondo  demoniaco e dei defunti. Queste “anime multiple esterne”, sono quelle  attraverso cui l’individuo si realizza e si rapporta con il mondo esterno:  Oppenheim richiama, a proposito, esempi tratti dal mondo classico, biblico ed  evangelico, per indicare come, pur mediante differenti formulazioni, altre  culture abbiano trovato modo d’esprimere dottrine psicologiche di anime esterne  e multiple, dottrine che appaiono così estranee al mondo occidentale .  I due  nomi del primo ordine possono rispettivamente essere accompagnati da un essere  di genere opposto del secondo ordine. Nel quadro della comparazione, al greco eudaimon lo studioso accosta ilu, la cui azione diviene percepibile  nel colpo di fortuna, nello scansare inconsapevolmente un pericolo, tanto da  permettere che venisse coniato l’aggettivo ilanû (= ilu+ elemento derivativo o  d’appartenenza –anu)per indicare una  persona fortunata. Non posso, in questa sede, riferire sulle considerazioni di  Oppenheim sulle altre tre entità; mi limito a riportare questo schema  sintetico, onde indicare la posizione ed il ruolo “principiale” dello ilu nel complesso del sistema  non-corporeo. 
                  ilu                                         ->  principio “spirituale”ishtaru                                ->  fato proprio personale
 lamassu                         ->  caratteristiche individuali
 shedu                                                   ->  forza vitale
 Il “dio  personale” rappresenta la forza che determina tanto il benessere (risultato di  eventi incontrollabili), quanto la volontà e capacità d’azione nel perseguire  le scelte individuali.  Il  “dio personale” è il principio da cui l’uomo trae origine, e cui l’uomo deve  far riferimento nella vita. I termini impiegati nei testi per indicarlo sono:  “il dio che lo ha creato”,  mentre la sua  controparte femminile è detta “la madre (qui entità divina) che lo ha  generato”. L’impiego della terminologia indica chiaramente come queste entità  siano state considerate ben distinte dai genitori naturali: infatti per queste  entità divine si usa il verbo banûm “creare”, mentre il generare degli uomini (sia padre che madre) è espresso col  verbo waladum. Il rapporto che lega l’essere umano alle sue  divinità “creatrici” è tanto intimo e profondo da consentire l’uso corrente di  espressioni quali “l’uomo, figlio del suo dio”. Per  concludere questo argomento, ricordiamo le descrizioni degli inferi che  ricorrono in talune opere letterarie sia sumeriche che babilonesi. Il fantasma  che popola questi luoghi tetri non è – come da tanti semplicisticamente si  continua a credere – l’individuo nella sua integrità , diverso in questo  solamente dall’individuo vivo, che è spogliato del corpo fisico. Il fantasma –  che può anche fuggire dagli inferi ed infestare le dimore dei vivi, ragione  questa del fiorire di una ricca letteratura esorcistica – è costituito da  alcuni aspetti della persona, e, passato un certo tempo, svanisce. L’elemento  divino, il cosiddetto “dio personale” non ha alcun riferimento al mondo infero,  in nessuna circostanza.  § 6. Ritorno al Principio L’altro  grande capolavoro della letteratura mesopotamica noto al grande pubblico  (purtroppo le letterature sumerica e babilonese sono troppo circoscritte negli  ambiti specialistici!) è l’epopea di Gilgamesh. Una decina di anni fa rilevai  (cfr. Gilgamesh e Dante: due itinerari alla ricerca  dell'immortalità, in: V.  Placella - M. A. Palumbo curatori, Miscellanea  di studi in onore di Raffaele Sirri, Napoli 1995, pp. 281-297) un  parallelismo tra il viaggio di Gilgamesh alla ricerca dell’immortalità e il  viaggio di Dante. Al termine del suo viaggio, Gilgamesh raggiunse (e superò) i  confini del mondo per recarsi dal Noè mesopotamico e cercare presso di lui,  immortale, l’agognata immortalità. L’isola posta al di là delle Acque della  Morte in cui vive il Noè mesopotamico presenta forti analogie col monte del  Purgatorio, sulla cui sponda si trova Catone (Dante, Purgatorio, Canto I). Cardine centrale del confronto è l’immortalità in  quanto “Vita” (con la “V” maiuscola!), cercata da Gilgamesh e ottenuta dalle  anime purganti, che sanno come, al termine della loro penitenza, raggiungeranno  il Paradiso.
 In quell’occasione rilevai un triplice confronto tra  il viaggio di Gilgamesh, con quello dell’Ulisse dantesco (Dante, Inferno, Canto XXVI), e quello di Dante  stesso. I viaggi di Gilgamesh e dell’Ulisse dantesco si contrappongono a quello  di Dante, che, alla fine, riesce ad ottenere la Visione di Dio (Paradiso, Canto XXXIII). Ormai è accertata una stretta vicinanza tra  l’Ulisse omerico e Gilgamesh (T. Abusch, The Epic of Gilgamesh and the Homeric Epics, in: R. M. Whiting ed., Mythology and Mythologies (=Melammu  Symposium II), Helsinki 2001, pp. 1-6), ma il confronto fra le vicende dell’eroe mesopotamico e  l’Ulisse di Dante evidenziano come la “salvezza” sia posta a priori, quasi che  il viaggio di ricerca non sia altro che la realizzazione nel mondo sensibile di  una realtà fuori dal tempo. Infatti Dante porta a conseguimento il suo viaggio  perché – lui inconsapevole! – così era stato deciso (Inferno, Canto II): si ricordi la lapidaria risposta di  Virgilio a Caronte (Inferno, Canto  II, v. 95: “vuolsi così colà dove si puote”).
 Questa  ineffabile realtà trova puntuale riscontro nei Rituali Liberomuratori, in  particolare in quello dell’Iniziazione.
 Gilgamesh,  come l’Ulisse dantesco, sono mossi da empietà, poiché voglio raggiungere ciò  che è loro negato; l’empietà consiste nel “titanismo” di scalare il Cielo senza  – o, addirittura, contro – l’approvazione divina. Ricordo ancora Dante (Paradiso, canto XX, 94-98): “Regnum celorum violenza pate / da caldo  amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate: / non a guisa che  l’omo a l’om sobranza, / ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta,  vince con sua beninanza”. Gilgamesh e l’Ulisse dantesco, come Titani, hanno  affrontato la ricerca della Vita alla stessa stregua di un conflitto: non  potevano che fallire.     RAIMONDO  DI SANGRO:GRAN MAESTRO DELLA MASSONERIA NAPOLETANA (Edoardo Stonaiuolo)  A  bordo della sua carrozza,entra o esce dal suo palazzo nel centro di Napoli il  Principe di Sansevero, «Signore di corta  statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, filosofo di spirito, molto  dedito nelle meccaniche, di amabilissimo e dolcissimo costume, studioso e  ritirato, amante la conversazione di uomini di lettere», come lo descrive  l’illuminista Antonio Genovesi.
 Entra  in scena e subito la domina: i vicoli si animano,mille occhi curiosi  furtivamente scrutano dalle finestre,da dietro i carretti,dai crocchi,dalla  chiesa e dall’osteria. Tutta la massa del popolo che si assiepa intorno al suo  palazzo rispetta e riverisce “ sua Eccellenza ‘O Principe” ma anche lo teme. “Ssst  jesce ‘o Principe”. Dai bassi e dalle  botteghe sguardi indagatori seguono,senza darlo a vedere la carrozza con i  valletti,nell’intento di scoprire la destinazione del Principe.
 E’  un personaggio strano,come il suo palazzo,e quella sua chiesetta che ha  riempito di statue strane che non si capisce che hanno a che fare con la  religione: Come quella donna “ che da  sotto un velo di marmo trasparentissimo ti sbatte in faccia due zizze belle  tonde e che lui ha chiamato La Pudicizia”,o quel “povero cristo di pescatore finito nella sua stessa rete e che si  dibatte per liberarsi e che ha chiamato il Disinganno”. Il  popolo rispetta e teme il Principe,ma non lo capisce. E come potrebbe?
 Raimondo  di Sangro, Principe di Sansevero, è senza dubbio uno dei personaggi più  affascinanti  e misteriosi del Settecento  napoletano.  Non  si può comprenderne appieno la figura,o capire l’essenza delle sue opere se non  si considerano le sue origini ed il contesto storico in cui visse.
 Discendente da stirpe Carolingia,e dalla casata dei duchi di  Borgogna,Raimondo nasce il 30 gennaio 1710 a Torremaggiore, in provincia di  Foggia, da Antonio di Sangro e da Cecilia Gaetani d’Aragona, famiglie di  antichissimo lignaggio, che  vantavano  ascendenze al medio evo, un’eredità che li poneva in una posizione di autonomia  e privilegio rispetto alle varie dominazioni succedutesi a Napoli. La personalità di Raimondo fu influenzata dalle vicende dei  genitori. La madre Carlotta era morta quando il Principe aveva un anno; era  figlia di Aurora Sanseverino e Nicola Gaetani, intellettuali, mecenati di  filosofi e di artisti come Vico e Solimena, fautori dello sviluppo di un  pensiero rinnovatore che i primi del 1700 poteva apparire rivoluzionario. Ma  altri personaggi nella stessa casata influenzeranno notevolmente il pensiero e  le opere di Raimondo: l’abate del monastero benedettino di Montecassino,  S.Berardo, S.Oderisio,il Vescovo Leone Ostiense autore dei primi libri della Cronica Casinensis.       Il ramo paterno, di tradizione militare,  annoverava numerosi condottieri al servizio dell’esercito spagnolo lungo tutto  l’arco del vicereame. Ma è soprattutto nel periodo asburgico (1705-1734), dopo  la morte di Carlo II di Spagna, che la famiglia di Sangro divenne  particolarmente potente. Il nonno, Paolo di Sangro, si era guadagnato il titolo  di Grande di Spagna, di prima categoria, per sé e per i suoi discendenti  maschi, oltre a tutti gli incarichi ufficiali presso la corte.
 La  figura del nonno paterno ha un ruolo fondamentale nella formazione di Raimondo,  poiché è alle sue cure, cui era stato affidato da piccolissimo, che si deve lo  sviluppo intellettuale del Principe e il suo amore per la ricerca. Raimondo era  stato mandato a Roma a studiare presso i Gesuiti dove era entrato in contatto  con una cultura orientata sia in senso umanistico che scientifico,e per  entrambe le branche del sapere Raimondo aveva manifestato interesse ed  inclinazione.
 Fu  scrittore arguto e brillante, intellettuale illuminato dall'ingegno vivacissimo  e dai molteplici interessi, dedito a studi e ricerche  spesso discutibili.  La sua conoscenza del pensiero dell’epoca, è  dimostrata dalla sua biblioteca: 1600 volumi circa con opere autografe di  Pierre Bayle, Denis Diderot, Montesquieu, Voltaire, Condillac, Rousseau, e  tanti altri.
 Innumerevoli  le opere a carattere tecnico-scientifico.
 L’unico  testo di carattere cabalistico era Il  Conte di Gabalis, scritto dall’abate francese Villars de Mountfauçon, che  il Principe aveva nell’edizione originale francese del 1742 e che aveva  tradotta in Italiano e pubblicata nel 1752.
 Esponente  di primo piano della nobiltà del Regno,fu tuttavia aperto alla borghesia del  tempo,considerando nobili “coloro che  mostrano ingegno virtù ed onestà”, Gran  Maestro della Massoneria napoletana dalla   personalità anticonformista e poliedrica, dopo aver suscitato  l'ammirazione e la curiosità dei contemporanei, ma anche forti ed irriducibili  opposizioni, ha continuato ad esercitare, nel corso dei secoli, un fascino del  tutto particolare, assumendo talvolta gli inquietanti tratti di uno stregone,dell'iniziato  e dell'alchimista,dell’inventore,sempre,tuttavia,quelli di un personaggio  quanto mai enigmatico.
 Sarà  per tutte queste caratteristiche, per l'enfasi un po' guascona con cui  presentava se stesso e ogni sua creazione, che tra gli animi più avveduti  un'aura di maldicenza ne accompagna la memoria.
 “O principe è 'nu riavulo”,  ripete ancora e sempre la voce del vicolo;con sufficienza e una punta di  fastidio, la casta dei sapienti precisa: “il  principe è solo un ciarlatano , credulo nelle antiche fandonie sulla magia  alchimistica”. E lui rivendicava la magia quale scienza di ciò che è ancora  ignoto in grembo alla Natura. Magia pervasa dal soffio del divino. In questo  senso si voleva Mago.Ma la vita del Principe de Sangro è un insieme di  simbologie alchemiche,magiche,massoniche ed ermetiche,in accordo con  l'originaria dottrina egizia,secondo la quale, per ottenere l'illuminazione  bisogna operare un cammino che prevede di tagliare simbolicamente a pezzi il  proprio corpo ed aspettare che esso attraversi la sua fase di putrefazione  affinché risorga a nuova vita, una vita dominata dallo spirito.
 E’  la trasposizione del mito della morte e resurrezione di Osiride che, posto  all'interno di un sarcofago delle sue dimensioni e fatto a pezzi dal fratello  Seth, verrà ricomposto da Iside per dare alla luce il figlio Horus, lo spirito  splendente d'oro.
 E’ ormai noto che la società dei Liberi  Muratori in Europa ebbe il suo primo embrione in Calabria con la scuola  Pitagorica, denominata per antonomasia Scuola-Italica,ed i misteri di Iside ed  Osiride, coi rispettivi rituali delle iniziazioni arcane e misteriose. Dato che  si vuole che lo stesso Numa Pompilio sia stato iniziato a questa Scuola  misterica,. possiamo dire che Scuola Pitagorica,Scuola Italica e Massoneria  Italiana  sono da sempre legate da un  unico filo che parte dall’Egitto,ed in ossequio alle loro origini, i liberi  muratori del Grande Oriente di Napoli si mostrarono sempre gelosi nel custodire  le dottrine dell’Ordine ed,a fronte di qualunque ostacolo,ne propagandarono  i  principi che sono pervenuti sino a noi  attraverso molti secoli,
 I  Figli del Sebeto mostrarono sempre coraggio e virtù  nell’affrontare arditamente i patiboli e col  “non far di berretto o inchinarsi giammai  all’odiatissimo dispotismo”.
 Fu  per effetto di questi  principi che si  proclamò in Napoli il Regime Repubblicano e la Repubblica Partenopea, che  costava al popolo tanti sacrifici, non così facilmente si sarebbe spenta se non  fosse stata stroncata dal fanatismo religioso appoggiato il dispotismo.
 Nel  napoletano il secolo dei lumi si caratterizza come un momento di fervente  attività in ogni campo. E’ un periodo storico, che  lascia una traccia profonda nella storia del  Mezzogiorno d’Italia, sia sotto l’aspetto culturale che per gli avvenimenti di  carattere socio-economico che ebbero a verificarsi. Può ben dirsi, per le  iniziative di varia natura che vi si presero, che questo secolo contribuì  notevolmente a creare una Napoli proiettata nel futuro.
 Come  non riconoscere i grandi meriti di Carlo di Borbone,nel rinnovamento napoletano  dell’epoca?
 Fu infatti grazie alla sua azione di  governo che:
 -Si  costituì il collegio   “Nautico”, per la  formazione   di ufficiali della marina  mercantile;
 -Venne  fondato il Corpo dei Piloti di porto;
 -Furono  incrementati gli scambi commerciali fra il Regno di Napoli ed i paesi dell’area  mediterranea
 -Fu  introdotto nel Regno il “gioco del lotto”,
 -Il  2 luglio 1738, nacque l’Ordine Cavalleresco di San Gennaro,che sostituì quello  di San Carlo
 - nel marzo del 1737 ebbe inizio la  costruzione del Teatro San Carlo, affidata all’architetto Angelo Carotale,
 -Su  disegno dell’architetto cav. Fuga, fu costruito l’Albergo dei Poveri, aperto ai  diseredati di tutto il Regno.
 -Ed  ancora  l’opera di ammodernamento della  capitale,  il miglioramento dell’edificio  dei Regi Studi,la costruzione della Reggia di Caserta, su progetto  dell’architetto Vanvitelli
 Anche  sul piano culturale, si ebbe un’imponente ripresa di ogni attività esaltante il  pensiero umano,infatti  si diede in  questo periodo, grande impulso agli scavi di Ercolano e di Pompei, istituendo  una scuola per la decifrazione dei Papiri Ercolanensi,  .
 L’Università degli Studi di Napoli,  fondata da Federico II°, venne ravvivata da Carlo che vi raccolse i migliori intelletti  del secolo, facendone il centro motore del movimento illuministico del  Settecento napoletano.
 Anche  l’Accademia di Lettere e Scienze mutò sistema di lavoro, abbandonando ogni  pompa del passato, prendendo di mira l’utilità della collettività nazionale,  richiedendo l’applicazione alle arti, alla medicina, alle lettere, affinché  venissero chiariti i punti basilari della storia patria, in modo da contribuire  al miglioramento dell’arte di governo dei popoli.
 Notevole  fu l’apporto che questo secolo ricevette dall’azione di uomini illuminati  quali: Raimondo di Sangro, Francesco Spirito Principe di Scalea, Paolo Doria  Principe d’Angri, Vincenzo Cuoco, Domenico Cirillo, Pietro Colletta, il  Tenucci, Gaetano Filangieri, il Marchese Vargas Macciucca, Giuseppe Aurelio De  Gennaro, Pasquale Cirillo, Biagio Troie, Mario Pagano, mentre fra gli  ecclesiastici   ricordiamo il Genovesi,  il Galliani, il Martini, Padre Carconi e l’arcivescovo Rossi.
 Non  poteva mancare il contributo femminile a questo particolare momento storico e  notevole fu quello dato da donne come: Faustina Pignatelli, Eleonora Pimentel  Fonseca e tante altre ancora.
 Fu  appunto questa notevole ripresa culturale della Napoli settecentesca che,  assieme all’incrementato scambio con altri paesi, dette quello che poi venne  definito: «l’Illuminismo napoletano»  che anche sul piano socio-politico, doveva porre i presupposti per quella  grande pagina di storia che fu la Rivolta   e la gloriosa Repubblica Partenopea.
 Grande  posizione assume in questo quadro, appena accennato,il fenomeno Massonico, per  gli uomini che ne furono i propulsori ma anche per la tenace azione da essa  assolta nella storia di questo secolo.
 Fu  infatti dalla Massoneria Napoletana che si manifestarono importanti componenti  ideali che troveranno poi la loro identificazione più evidente, nei paesi più  liberali.
 Vediamo  infatti la giovane Massoneria Napoletana di questo secolo muoversi con la  spontaneità propria dei modelli nuovi,allo scopo di dare il suo storico  contributo alla società nella quale si trova ad operare,spesso subendo  persecuzioni  e censure per  affermare,primo tra tutti il diritto di associazione
 È  infatti molto indicativo in proposito, leggere l’inizio del “De Collegiis et Corporibus” ove è detto:  «In qualunque ben regolato governo non vi  è male, che più contraddica e distrugga i principi dell’intrinseca sua  costituzione, quanto la perniciosa libertà, che si arrogassero i cittadini di  portare a loro capriccio di formare unioni, e stringersi in società».
 Un  sicuro insediamento della massoneria a Napoli, a parte un precedente  del 1728 (relativo ad una loggia denominata Perfetta Unione di cui tratteremo poi),  può esser fatto risalire al 1745,   allorquando un commerciante francese   Louis Larnage fondò una nuova Loggia che divenne “giusta” nel 1749, quando vi vennero iniziati cinque ufficiali  borbonici e successivamente altri dieci fratelli tra cui Francesco Zelaja ed il  sacerdote Filippo Nazani Paltoni .
 Secondo quanto scrive Francovich, la Loggia  svolgeva i lavori nel rispetto dei Rituali inglesi con i tre gradi della M.  Azzurra (apprendista, compagno e maestro)
 Nell’anno  1750 venne eletto Maestro Venerabile lo Zelaja, il quale desideroso di  rilanciare l’Ordine Massonico, avvertiva la necessità di immettere nella  Famiglia uomini di alto lignaggio che avessero potuto offrire all’Ordine  protezione e facilitarne l’azione di proselitismo come Gennaro Carafa,Domenico  Venier,il principe di Calvarusso.In questo periodo vengono inseriti ad opera  del R+C Charles Radcliff altri gradi detti Superiori o Scozzesi
 Nel  contempo la Loggia si trasferisce al Palazzo del Marchese Rimise. In questa  nuova sede vennero ricevuti diversi ufficiali e nobili di alto rango, fra i  quali Gennaro Carafa Principe della Roccella.
 Nel  luglio del 1750 viene iniziato Libero Muratore Raimondo di Sangro Principe di  Sansevero, il quale l’anno successivo assume il titolo di gran maestro.
 In  questo periodo v’erano due distinte correnti massoniche nel regno di Napoli:  una formata dai ranghi più elevati della gerarchia militare insieme ai nobili  legati alla corte, e  che operava con gli  alti Gradi,ed una seconda che accoglieva gran parte dei commercianti,inglesi e  francesi, ed anche ufficiali di basso rango. La maggioranza di coloro che componevano  questa seconda «ala» borghese delle logge partenopee era di religione  calvinista, ed era questa ala che era guidata dallo Zelaja.
 A partire dal momento del  riconoscimento di Raimondo come Gran Maestro di tutte le logge napoletane,  il  Principe si tuffa nella politica del  regno, avvicinandosi al Re di cui gode la stima e collaborando alla  ristrutturazione dell’esercito, anche attraverso l’invenzione di macchine da  guerra, del tutto nuove per l’epoca.
 Convinto seguace di Bayle, Shaftesbury,  Collins e Toland, da cui aveva mutuato i principi di tolleranza religiosa e di  libertà di pensiero, il Principe non può fare a meno di coinvolgere nel proprio  progetto i magistrati con i quali i nobili rivaleggiavano «negli affari del Regno» procurando grave disagio alla corona, al  regno intero, ed offrendo all’estero motivo di discredito per il Regno di  Napoli.
 Questo aprirsi di Raimondo alla borghesia,  questo considerare «nobili» coloro i quali mostrano ingegno, virtù, ed onestà,  e’ di certo dovuto all’evolversi del suo pensiero massonico.
 Tale  attività la mantenne fino al 1751 anno in cui,Carlo III di Borbone dovette con  un editto cancellare le logge napoletane e bandire la massoneria dal regno.
 Comunque  la Napoli di quegli anni è da considerarsi un  vero crogiuolo di attività esoteriche, di sodalizi iniziatici di diversa  matrice,che, amalgamatisi gradatamente fra loro, originarono un complesso  regime esoterico di natura sincretica, dalla prevalente e spiccata matrice  italico-egizia-caldaica.
 E'  proprio a Napoli che naque e prosperò quel centro tradizionale che, secondo  Brunelli, “di volta in volta diede  manifestazioni di sé attraverso l'ispirazione di fratellanze esoteriche di  particolare importanza”  a noi  noti come "Rito di Misraim, Alta  Massoneria, Ordine della Stella Fiammeggiante”;  strutture iniziatiche che, come osserva il  Kremmerz , “originatesi dalle scuole magiche osiridee,  propriamente di origini italiche, e passate insospettate fino alla seconda metà  del secolo XVIII, (sono) ritornate poi nell'ombra della storia, tanto che ora  non si sa dove stiano e se ancora esistano”.
 Ad  ogni modo, ancora oscuri e scarsamente documentati appaiono i primi indizi  dell'ermetismo di ispirazione egizia nel pensiero del secolo dei "lumi" che, nella Massoneria, troveranno i  "segni" più incisivi della loro riscoperta. La fondazione  di una loggia con connotazioni egizie, anche se non sicuramente documentata  sembra risalire al tempo del viceregno austriaco in Napoli , ma  dati più certi si hanno per la metà del XVIII secolo.La notizia è in buona  parte confermata da un ms. compilato appena dopo il 1750da un anonimo Curioso  dilettante di novità .
 La particolarità dell'officina napoletana  della Perfetta Unione che, come  vedremo, assumerà la denominazione di "Primaria  Loggia",era quella di far uso di un sigillo caratterizzata da una  piramide sormontata dal sole raggiante, davanti alla quale vi era la sfinge, e  la rappresentazione della luna crescente sul dorso. Le zampe anteriori poggiano  su un ramo di acacia e su di una pietra cubica grezza. Il sigillo in argento, avorio.  ed oro  reca le seguenti  leggende:
 SIG:  NEAPOLIT: LATOMOR: FRATERN:   PERFETTA-UNIONE...ed all'interno, nel campo superiore la frase  :QUI QUASI CURSORES VITAE LAMPADA TRADUNT  A.L.1728  che si traduce in SIGILLO DELLA  FRATELLANZA DEI MURATORI NAPOLETANI DELLA PERFETTA UNIONE;COLORO CHE COME  CORRIDORI TRASMETTONO LA LAMPADA DELLA VITA. ANNO DELLA LUCE 1728.
 Il  sigillo,che quindi sposterebbe al 1728 l'anno di fondazione della Perfetta Unione,presenta notevoli  analogie con una medaglia commemorativa realizzata dai massoni romani nel 1742  durante la permanenza del celebre massone inglese Martin Folkes nella capitale .
 Infatti,  praticamente simili sono i motivi della piramide (per alcuni sarebbe quella  romana di Caio Cestio), del sole radiante, della sfinge della luna,del ramo di  acacia, della pietra cubica.
 Tale  medaglia era stata realizzata ispirandosi al sigillo della Perfetta Unione napoletana?
 Oltre  ai riferimenti del Francovich ,  un'altra fonte confermerebbe  l'esistenza di una loggia operativa detta della Perfetta Unione in Napoli nel 1728. La notizia è tratta dalle  Tavole Barbaia, documento  che, nel 1885,  attestava la ricostruzione della Perfetta  Unione all'Obbedienza  del Supremo  Consiglio del 33° Grado per la Giurisdizione Italiana sedente a Torino.
 Nella  breve cronistoria che contiene, la Tavola rimanda al 1728 l'origine della Perfetta Unione napoletana .
 Per  concludere i riferimenti alle origini dell'officina partenopea, bisogna far  menzione di una patente di legalità che, nel maggio 1728,veniva concessa dalla  Loggia Madre di Londra a firma di Lord H.H. Coleraine per una non meglio  specificata loggia napoletana .  In ogni caso la simbologia del sigillo della Perfetta Unione non pone dubbi sul tipo di "tegolatura"  usata nella più antica delle officine   partenopee, poi diventata verosimilmente "Primaria Loggia" all' epoca del mandato di Raimondo di Sangro.
 Non  conosciamo da documenti l'impronta data dal principe alla sua loggia che, in  breve, per il rilevante numero dei muratori dette origine a gemmazione di altre  officine. Nonostante l'esiguità del tempo di venerabile in carica,il  Sansevero si adoperò per lo più ad organizzare una struttura di più ampio  respiro rispetto al passato, e ad appianare i dissensi interni tra gli  orientamenti conservatori di Larnage ed innovatori dello Zelaja.Il Sansevero  divise i massoni napoletani in tre Logge: la Di Sangro,la Carafa e la Moncada (dai nomi dei rispettivi venerabili).
 La Di Sangro,forte di trecento fratelli  aveva nel suo interno un nucleo di ispirazione Hiramitica,Rosicruciano,alchimistico  e templare,come si evidenzia da alcuni documenti scritti dallo stesso Di Sangro  al baroneTschudy .
 Interessante  notare che questa “superloggia” operava col titolo di Rosa d’ordine Magno ,  forse con rituali egizi o ebraico-egizi.
 Dalla "Lettera Apologetica"  si  rileva la profonda erudizione del di Sangro relativamente agli Egizi e alle  loro conoscenze delle costellazioni, del ritrovamento del Corpus di conoscenze  metafisiche di Adamo e delle opere di Ermete Trismegisto.
 Inoltre,da profondo conoscitore della lingua  ebraica,il Sansevero era in grado di consultare gli antichi testi cabalistici  nella loro stesura originale,anche se   per evitare gli strali della censura ecclesiastica,fu costretto ad  attribuire l'origine del geroglifico, e quindi la nascita dell'intelligenza  dell'umanità, ad Adamo e alla "ebraica nazione". In questo  modo,usando un linguaggio ironico, sembrava accettare la generale impostazione  della chiesa che la conoscenza divina passi dalla sapienza ebraica a quella  dell'Egitto e che questa sia stata trasmessa da Misraim, nipote di Cham.
 Questa  affermazione apparentemente non eretica viene ribadita dal termine Memphis-Misraim con il quale più che far  precedere una tradizione all'altra si tende a far comprendere che esse si  trovano entrambe ad oriente del nostro mondo.
 La pubblicazione, avvenuta il 28 maggio 1751,della Bolla Providas Romanorum Pontificum emanata da  Papa Benedetto XIV,al secolo Prospero Lambertini, bolognese(egli stesso  massone,cavaliere kadosh),per ribadire la condanna pontificia del 1738 di Papa  Clemente XII,del 28 aprile 1738 In  Eminenti Apostolatus Specula, indusse Carlo VII di Borbone (poi Carlo III,  come re di Spagna) alla promulgazione di un editto (10 luglio1751) che proibiva  la Libera Muratoria nel regno di Napoli .
 Avendo avuto sentore della  tempesta che stava per abbattersi sulla massoneria napoletana, fin dal 26  dicembre 1750 il principe di San Severo aveva informato il re sulla esatta  realtà dell’organizzazione da lui presieduta e, con altrettanta tempestività,  il 1° agosto 1751 inviò al Papa un’abilissima lettera di ritrattazione .
 Le proteste di lealismo  politico-religioso del San Severo valsero a limitare le sanzioni contro i  liberi muratori napoletani, che si ridussero per la stragrande maggioranza di  essi a una solenne ammonizione giudiziaria grazie anche alla commissione  inquirente nominata da re Carlo, composta dal Duca di Mirando,il duca di  Castropignano,dal Principe di Centola,e da padre Benedetto Latilla.
 Unici condannati,il Larnage,il frate francescano Bonaventura di  Bisognano ed il  barone Tschudy.
 Dopo  il “tradimento” del principe e la  fuga del barone Tschudy, la Primaria Loggia o della Perfetta Unione,presumibilmente, venne"assonnata".
 Tale gesto da alcuni fu interpretato come atto  di vigliaccheria, da altri come unico atto possibile per salvare i fratelli,  disciogliendo l’ordine. Il progetto del di Sangro era di far risorgere la  nobiltà napoletana, spesso accusata di essere dedita solo alla vita di corte,  alla caccia, e di essere legata solo ai propri privilegi feudali. Riscattarla  quindi dal letargo per aprirla ai fermenti innovatori che in Europa si facevano  sentire.
 Dopo  i fatti del 1751,la repressione,la scomunica ed il tentativo a vuoto  dell’Inquisizione di tradurlo a Castel Sant’Angelo, Raimondo si vede costretto  a chiudere la tipografia in cui stampava i manoscritti da lui stesso tradotti,  a volte sotto pseudonimo.     Due gesuiti,  in particolare, tallonavano da presso il Principe: Innocenzo Molinari e  Francesco Pepe che riferivano ai responsabili superiori dei «servizi» vaticani circa le opere e le  iniziative del Principe. Soprattutto si scagliavano, nei loro rapporti, contro  le opere «pericolosamente scientifiche»  che Raimondo stampava e divulgava.
 Costretto al silenzio, Raimondo di Sangro non  trovò altra maniera di dialogare con il mondo intelligente che quello di  scrivere il proprio testamento spirituale nella Cappella, da lasciare a quella  parte di mondo che, animata dalla sete della conoscenza, avrebbe profuso sforzi  ed energia per interpretarlo.
 Mancano  notizie certe fino al 1768, data di una petizione da parte di Jean Rodolphe  Passavant alla Grand Lodge of England per  essere autorizzato a ricostituire in Napoli la loggia regolare La Perfetta Unione, portandola, successivamente,  alla dignità di Gran Loggia Provinciale .
 Nel 1763, divenuto re di Spagna dal 1759 Carlo VII, e regnante  sotto la tutela del toscano ministro Bernardo Tanucci l’ancora minore suo  figliolo Ferdinando IV, il gran maestro aggiunto della G.L.Nazionale  d’Olanda, Franc Van der Goes, concesse una patente  provvisoria di fondazione per una loggia sotto la denominazione di Les Zelés. La patente definitiva venne  rilasciata il 10 agosto 1763 e ad essa il 10 marzo 1764 fece seguito un’altra  patente, che promuoveva la loggia Les  Zelés al rango di Gran Loggia Provinciale per il regno di Napoli.
 In  questo momento, nella massoneria   napoletana operano personaggi importanti come Luigi D'Aquino  (1739-1783), fratello del principe Francesco, legato al noto Giuseppe Balsamo.
 Benché occultata, la Napoli massonica era  rappresentata da piccoli gruppi tenuti uniti dal fratello  Francesco, per lo più interessati a vendicarsi delle delazioni e  tradimenti subiti con la famosa "sorpresa  di Capodimonte" del capo della polizia, Pallante per ordine del  ministro Tanucci.
 Nel  1767  viene denunciato a corte da un  massone "pentito" e da un prete, il duca di Torremaggiore, Vincenzo  Di Sangro (1743-1790), figlio di don Raimondo e futuro principe che alla morte  del padre erediterà il titolo principesco, il palazzo e le proprietà e,  soprattutto, i numerosi debiti che un matrimonio di interesse riuscì appena ad  arginare.        Comunque Vincenzo,subito  dopo la morte del padre, ricostituì la Perfetta  Unione che. non essendo riconosciuta dalla Gran Loggia d'Inghilterra, fu  considerata irregolare,ma,fu quasi certamente il cavalier D'Aquino, cugino del  Di Sangro, ad introdurre nel Corpus dottrinario della loggia un'operatività  segreta a cui lo stesso era stato iniziato a Malta e che si riteneva fosse  derivata dall'antica sapienza sacerdotale egizia  e caldea.
 Oltre  al Balsamo-Cagliostro (1743-1795) che grazie all'amicizia del D'Aquino, ebbe  contatti con la loggia, impossessandosi, forse, della liturgia di un rito  che gli fu utile per il suo rituale egizio,  vanno ricordati, in quanto  appartenenti  alla Perfetta Unione, Nicola Palomba  sacerdote di Avigliano (1746-1799), Carlo Castone Della Torre Di  Rezzonico,  Francesco  Caracciolo (1752-1799).
 Non  si possono del resto ignorare massoni intellettuali  e patrioti come Gaetano Filangieri principe  diArianello (1752-1788),  Mario Pagano,  Domenico Cirillo e tanti altri.
 Ma,ritorniamo  al Sansevero .
 Nel 1744, dopo essersi distinto nella  battaglia di Velletri, è ricevuto dal Pontefice Benedetto XIV ottenendo la  "licenza di poter leggere ogni  genere di libri proibiti", ed inizia un periodo di intensa attività  intellettuale "con occuparsi nel  giorno del continuo a studj meccanici, e nella notte, ove si gode una maggior  quiete, e sono più lontani i rumori, alle scienze , ed  arriviamo al periodo cruciale della vita di Raimondo di Sangro, che in  pochi  anni viene iniziato nella Libera  Muratoria (se dobbiamo ritenere rispondente a verità la  sua dichiarazione di essere stato iniziato il 22 Luglio 1750) e  poco dopo   ne diventa il Gran Maestro, elabora con il Corradini, anch'egli Libero  Muratore, il programma iconografico della Cappella e dà inizio alla sua  decorazione.
 Abbiamo  visto che la prima Loggia Massonica costituita dal Larnage, subì una scissione  ad opera degli aristocratici i quali si riunivano in Palazzo Alvise e  riconobbero quale loro Maestro Venerabile il Di Sangro, mentre il Larnage  costituì una nuova Loggia alla quale dettero la loro adesione quei fratelli  rimasti fedeli alla Ritualità inglese.
 Prima  fatica del Maestro Venerabile Di Sangro fu quindi quella di avere intensi  contatti con il Larnage ed i suoi seguaci, allo scopo di eliminare ogni  malinteso fra le due Logge e far rientrare la scissione, e la sua tenace azione  ebbe positivi risultati.
 Infatti  il 24 ottobre 1750, a Posillipo, nella villa del Principe Gennaro Carafa, si  pervenne all’agognata unificazione dei due rami della Massoneria Napoletana,  tanto che,nella predetta riunione il Larnage riconobbe il Principe Raimondo di  Sangro, nella dignità di Gran Maestro della Massoneria Napoletana.
 Il  Sansevero, vinte scissioni e malintesi, si dedicò con impegno alla  riorganizzazione della Massoneria Napoletana, determinando una sua notevole  crescita numerica e dividendo quindi i fratelli napoletani in tre Logge: la “Di Sangro” con un piedilista di oltre  280 fratelli, la “Moncada” e la “Carafa”.
 Superata  la fase di unificazione e riorganizzazione, il Sansevero si dedicò  all’approfondimento dottrinario e ritualistico, sostenendo che il cammino  iniziatico, iniziato nei primi tre gradi dell’Ordine, dovesse trovare il suo  perfezionamento nei gradi “scozzesi”,  o Alti Gradi, nei quali si trattava della leggenda di Hiram e del Tempio, di  Salomone
 Fu  merito quindi del Principe di Sansevero, la costituzione nella Massoneria  napoletana della prima Loggia Scozzese, presso la “Di Sangro”, che maggiormente si prestava alle esigenze rituali  dello Scozzesismo, sia per il più alto numero di componenti che per la loro  formazione esoterica. La loggia del di Sangro,usava certamente una tegolatura  ebraica-egizia,ed un rituale segreto,dedicato ad una selezionata cerchia di  appartenenti che verrà in futuro codificata negli ultimi gradi del Rito di  Misraim,noti come la Scala di Napoli o Arcana Arcanorum,cui corrisponde la  conoscenza di una pratica utile a conseguire il magistero  alchemico-trasmutativo.Questo livello conduceva attraverso i misteri di Iside  ed Osiride alla realizzazione di un “Corpo di Gloria”,ovvero al raggiungimento  della immortalità,che fu sempre l’idea dominante di tutta l’opera del Di  Sangro.
 Più  in generale,la “Perfetta Unione” recuperò e custodì un corpus dottrinario  tradizionale di ispirazione ebraico-egizio con forti influenze caldee e  pitagoriche, perfettamente in linea con quella tradizione Italica,che nel  Meridione d’Italia ebbe la sua maggior diffusione.
 Ma  l’azione riformatrice del Principe di Sansevero, non poteva fermarsi a questi  obiettivi.
 Infatti,venne  diffuso nel Napoletano, fra l’altro, la traduzione del “Conte di Gabalis” del Montfaucon de Villars, contenente nozioni  cabalistiche e della concezione Rosacrociana, in quell’epoca molto diffusa in  Germania, nonché del “Riccio Rapito”,  poema esoterico di Alessandro Pope in cui si fa riferimento a Paracelso ed agli spiriti elementari dell'Adeisidaemon del Toland. Ma il  rapido diffondersi della Massoneria nel Regno di Napoli, creò notevole allarme  negli ambienti ecclesiastici, tanto che già nell’autunno del 1750, iniziò con  violenza  una feroce campagna  antimassonica a Napoli, con le prediche nelle chiese e piazze del gesuita Padre  Pepe e del popolare “Padre Rocco” del quale si occupa Benedetto Croce nella sua  “Vita religiosa a Napoli del settecento”.
 Questa  situazione destò i primi allarmi anche nella Curia romana che intervenne presso  il Re Carlo V°, invitandolo ad intervenire.
 Questo  stato di allarmismo, indusse nei primi mesi  del 1751 il  di Sangro  ad avere un colloquio con Carlo V° per  rassicurarlo che nel corso del lavori Massonici “non si trama né contro la monarchia, né contro la religione.”
 Intanto,  in conseguenza delle pressioni  del clero  napoletano, la situazione precipitava con la emanazione da parte del Pontefice  Benedetto XII°, il 28 maggio 1751, della Bolla «Provvidae Romanorum Pontificum», con la quale  confermava   la scomunica emanata tredici anni prima dal suo predecessore, colpendo  in maniera particolare “il segreto  massonico” ed il suggello che esso riceve, sotto il vincolo del giuramento.
 Conseguentemente  alla presa di posizione del Pontefice, il clero locale accentuò le sue  pressioni su Re Carlo, perché si decidesse a deliberare misure restrittive nei  confronti della Massoneria.
 Messo  alle strette, il sovrano napoletano, il 10 luglio 1751, per la prima volta  nella storia del suo Regno, emanò un editto che condannava e proibiva la  Massoneria nel Regno.
 Nel  frattempo il Principe di Sansevero aveva pubblicato nella sua tipografia, un  opuscolo dal titolo «Lettera apologetica  del Quipu», sotto lo pseudonimo di Esercitato , nella quale, scrivendo di sé e delle sue invenzioni, consente al lettore di  farsi una ben precisa idea sui suoi orientamenti culturali e su diversi aspetti  della sua personalità.
 In  esso, mentre voleva colpire con la satira la società del suo tempo, riprendeva  di fatto le nozioni di  scrittura – tecnico-mnemonica – predisposta con fili di vari colori  annodati in modo diverso dal “Quipu”.
 Sostanzialmente  però, la Lettera Apologetica,  affronta temi cabalistici.
 Questo  lavoro del Principe, fu l’occasione perché  gli ambienti clericali napoletani potessero scagliare con maggiore veemenza,  una nuova campagna antimassonica, additandolo ai napoletani quale “rinnegatore della Sacra Scrittura e del  miracolo di San Gennaro”.
 Colpito  dai rinnovati attacchi, allo scopo di evitare all’Ordine massonico conseguenze  più gravi, il Gran Maestro si fece ricevere dal Sovrano napoletano allo scopo  di rinunciare pubblicamente alla dignità di Gran Maestro e chiedere di essere  ricevuto, attraverso il Nunzio Apostolico, dal   Pontefice, per chiarire i motivi della sua adesione alla Massoneria ed  il vero significato della sua opera sul “Quipu”.
 Appare  evidente che, con questo gesto, il Principe intendeva placare la bufera che si  era scatenata nell’opinione pubblica partenopea contro la Massoneria,e d’altro  canto, il   chiarimento al Papa, non  doveva essere considerato la ritrattazione delle sue convinzioni esoteriche,ma  una ben congegnata mossa politica.
 Nel  frattempo furono messe in circolazione, nella città di Napoli, le prime copie  dell’opera “Il Conte di Gabalis” ,e  purtroppo questa operazione aggravò maggiormente la campagna antimassonica  scatenata nel Regno di Carlo di Borbone, annullando l’azione che il Principe di  Sansevero, con la sua rinuncia alla Gran Maestranza, aveva tentato di  determinare.
 Di  fronte alla campagna antimassonica che si andava scatenando, Raimondo di  Sangro, il 3 agosto 1751, dopo essersi confessato presso il sacerdote G.B.  Alasia, inviò al Pontefice Benedetto XIV° una lettera con la quale, nel  precisare tempi e luoghi della sua Iniziazione Massonica, precisava nel  contempo che le Logge Massoniche non svolgevano alcuna azione eversiva contro  la Chiesa e contro l’ordine costituito .  "Compie in questo corrente mese di  Luglio appunto un anno, Santissimo Padre, da che un ragguardevolissimo  Cavaliere della Corte del mio Re Carlo Borbone  (18 col  quale avea gran dimestichezza, secretamente parlandomi m'invitò ad entrare nel  ruolo di coloro, che volgarmente Liberi Muratori son detti". Il Principe  racconta quindi che, dopo essere stato interrogato dal "Presidente o sia dal Maestro, siccome essi  dicono, dell'Ordine", venne ammesso all'iniziazione: "e avendoci il Presidente e tutti gli altri  Confratelli acconsentito, son tra loro ricevuto a' 22. di Luglio del prossimo  passato anno", ovvero del 1750.
 Il  Principe riferisce di essersi trovato "in  mezzo ad onestissima Gente" e che, avendo partecipato a numerose  riunioni, non si era imbattuto "in  alcuna cosa viziosa, se non in molte piuttosto ridicole ed insulse, cioè in  certi enigmi, sotto i quali ciascuna bagattella alla società appartenente si  nasconde": e continua quindi affermando che per tale motivo si era  piuttosto disgustato; tuttavia, aveva deciso di "perseverarci per qualche tempo" soprattutto perchè gli  sembrava "laudabile" che  uomini di diverso ceto. "posta da  banda la nobiltà della nascita e la gravità degl'impieghi, doveano fra loro  familiarmente conversare, e promettersi uno scambievole soccorso in caso di  caderne in bisogno" e pensando inoltre che "si potesse apportare un grandissimo benefizio alla Patria coll'unire  insieme gli animi de'più Potenti Cittadini e quelli de'Giureconsulti"."Trenta giorni appena dopo la mia ricezione - continua il Principe - per comune  consentimento di tutti fui eletto Presidente, o per meglio dire Gran Maestro  dell'Ordine nel Regno Napoletano".
 Per  quanto riguarda la vicenda massonica del Principe, ritengo che essa si sia  svolta diversamente da quanto risulta dalle dichiarazioni che egli stesso fu  costretto a fare. Non è credibile  che il  Principe fu iniziato appena pochi mesi prima di essere eletto Gran Maestro, ma  che la sua appartenenza alla Libera Muratoria debba risalire a circa un  decennio prima. Secondo quanto afferma il Curioso Dilettante . La  Massoneria fu introdotta nel Regno di Napoli nel 1731 dai militari austriaci,  ma già nel 1728 la Gran Loggia d'Inghilterra aveva rilasciato un mandato per  fondare una Loggia a Napoli .    Da un manoscritto del 1804 redatto da  Emanuele Palermo .  apprendiamo che dopo il 1734 la Massoneria continuò ad essere presente a Napoli  solo con Logge composte da forestieri, finchè, intorno al 1745, un "Piemontese ed un Francese (il Larnage), ambi  di domicilio in Napoli, il primo di mestiere acquavitaro, e'l secondo  negoziante di drappi e seta" non "pensarono di erigere una Loggia separata e farsene essi i Capi e  Direttori, non tanto per aver l'onore di esserne chiamati i Fondatori della  Loggia di Napoli, ma quanto per averne il profitto".
 Va  però detto che verso il 1740 circolava in città una traduzione manoscritta del  discorso del 21 marzo 1737 di Michel-André de Ramsay ,  discorso che viene considerato il punto di partenza per l'istituzione della  Massoneria Scozzese, e ci sono diverse ragioni per pensare che intorno al 1740  già esistesse a Napoli una Loggia "aristocratica" orientata verso la  filosofia degli Alti Gradi. di cui avrebbero fatto parte diversi esponenti  dell'aristocrazia, e, forse, lo stesso Principe di Sansevero: a questa Loggia  si sarebbe aggiunta, dopo il 1745, la Loggia di ispirazione "inglese"  e "borghese" del Lamage.
 In  questa fase della storia della Libera Muratoria napoletana, si inserisce la  vicenda del Principe di Sansevero, il quale fornisce la versione ufficiale sulla sua esperienza massonica  nella lettera scritta a Benedetto XIV e datata il I agosto 1751, Il Principe di  Sansevero. infatti, su proposta dallo Zelaja, venne "di comune consenso acclamato e riconosciuto per Gran Maestro  dell'Ordine", riconoscimento che gli fu confermato il 24 ottobre 1750  anche dalla Loggia del Larnage: pertanto. sotto il Gran Maestrato del Principe  di Sansevero, le Logge napoletane andarono a costituire una Gran Loggia  Nazionale .
 Sorge,  a questo punto, una legittima perplessità: come è possibile che il Principe di  Sansevero, per  quanto prestigiosa fosse  la sua figura, potesse essere eletto Gran Maestro dell'Ordine appena un mese  dopo la sua ricezione? Una così rapida carriera massonica appare molto  improbabile ,  mentre sembra ben più verosimile l'ipotesi che il Principe di Sansevero fosse  stato iniziato già diverso tempo prima, e che nel 1750 abbia invece voluto  imprimere una svolta decisiva alla Massoneria napoletana, riorganizzando le  Logge, rafforzandola e rendendola autonoma con la costituzione della Gran  Loggia Nazionale.
 L'idea  che il Principe di Sansevero facesse parte della Libera Muratoria da prima del  1750, è stata già avanzata da più parti, e secondo Gamberini il Principe  sarebbe stato iniziato nella Loggia del duca di Villeroy fra il 1736 e il 1737 .  Henri Theodor Tschudy riporta il testo di un'Orazione che il Principe avrebbe  pronunciata nel 1745, in occasione dell'ingresso di alcuni Apprendisti nella  sua Loggia .  Il tono dell'orazione è tale che a tenerla non può essere stato che il Maestro  Venerabile,o l’oratore della Loggia: pertanto, il Principe di Sansevero nel  1745 non solo sarebbe già stato inserito nell'Ordine, ma vi avrebbe occupato un  posto di primo piano. Inoltre, in un documento massonico dell'epoca, un  volumetto recante il titolo Le Costituzioni della Società dei Liberi Muratori,  viene riportata la "Canzonetta  Recitata in Napoli nel dì 21. Gennaio 1750. assistendo il F.. Tolvach Inglese  al travaglio della Loggia della Concordia, una delle Logge del F.. Raimondo di  Sangro, Principe di S.Severo, Primo Gran Maestro in Italia" :  apprendiamo in tal modo il titolo distintivo di una delle Logge del Principe di  Sansevero, ma soprattutto troviamo la conferma che il Principe era già a capo  della Massoneria napoletana il 21 gennaio 1750, cioè sei mesi prima della data  del 22 luglio 1750, in cui egli stesso afferma di essere stato iniziato. In  mancanza di documenti più precisi ed attendibili, la vera data dell'iniziazione  massonica del Principe di Sansevero resta ancora avvolta nel mistero. Ritengo  tuttavia che un'indicazione in merito sia stata fornita, in forma velata, dallo  stesso Principe nella Lettera Apologetica, quando parla del suo Progetto d'una Multiplice Difesa Interna, affermando che "questo ammirabile trattato è la cosa, che  con più gelosa cura custodisce l'Autore :   sembra infatti di poter scorgere, nella  Molteplice Difesa Interna, non solo un modello di fortificazione militare, ma  anche un'allusione allo schema della Triplice Cinta  simbolo dell'insegnamento iniziatico coi suoi tre gradi visti come barriere da superare  per penetrare nel punto centrale, cuore del mistero e fonte dell'insegnamento.
 Non   sembra eccessivamente azzardato ipotizzare  che la data del 1741, attribuita a tale Progetto ,  possa essere la vera data dell'iniziazione massonica del Principe, il che  sembrerebbe trovare conferma in un altro passo che precede il brano in  questione, ed in cui il Principe cita un'altra sua opera sulla “vera cagione produttrice della luce" .  Vedere o ricevere la Luce è ciò che il neofita chiede all'atto della sua iniziazione,  e non possiamo non ricordare, in proposito, la frase con cui lo stesso Principe  aveva salutato alcuni Apprendisti in occasione del loro ingresso nella sua  Loggia: "è giusto, infine, che vi  renda partecipi della Luce che avete cercato con tanta cura."
 Dopo  la sua rinuncia all’appartenenza all’Ordine Massonico,deluso ed amareggiato,il  Principe si concentra sui lavori della sua Cappella e sulle sue amate ricerche:  "abbandonando ogni altro intrapreso  suo studio nello stesso anno 1751,  pensò di darsi del tuffo allo studio della Fisica sperimentale come la più  profittevole per l'umana società, con animo di tentar nuove sperienze, e  illustrar con nuove scoverte una si famosa, e necessaria Scienza" .
 Intraprende  quindi delle nuove sperienze fisiche e fa costruire in un sotterraneo del suo  palazzo una fornace, sul tipo di quelle adoperate dai vetrai "ma di una particolare costruttura",  aggiungendovi diversi altri forni "a  fuoco di riverbero"; poi, in un altro locale,   fece installare un "Laboratorio Chimico con ogni sorta di  fornelli, di Vasellami, o di ordigni per qualunque operazione".  Realizza dei cristalli e delle pietre dure artificiali e riprende a fare degli  esperimenti,già precedentemente tentati, sulla rigenerazione della vita dei  granchi e sulla formazione del sangue dal cibo, facendo "altre belle scoperte... alcune delle quali  sembrano  fuori dell'ordine della Natura" . Fra  queste va ricordato soprattutto il cosiddetto Lume Eterno, ampiamente descritto  nelle Lettere indirizzate al Cavaliere fiorentino Giovanni Giraldi ed all'Abate  Nollet dell'Accademia Reale delle Scienze di Parigi . Il  tema della Luce che si sprigiona dai corpi viene ulteriormente trattato nella”Dissertazione sopra una lucerna ritrovata  ultimamente in Monaco”, e creduta una delle perpetue degli antichi .
 Se  questi comportamenti del Principe di Sansevero riuscirono a placare, sia pure  momentaneamente, la bufera che si era addensata sul suo capo e sulla  massoneria napoletana, da parte  del clero, iniziava nel contempo quelli dei  Liberi Muratori, i quali videro nelle prese di posizione del loro ex Gran  Maestro un tradimento all’Ordine ed al Segreto Massonico.
 Ritengo  che, esaminando attentamente il comportamento del di Sangro alla luce delle  persecuzioni che in quel periodo si condussero contro la Massoneria, non si può  non apprezzare il suo saggio e prudente comportamento  che evitò ai Massoni partenopei ( o perlomeno  ad una ristretta cerchia di essi ),ulteriori danni e fastidi.
 Lo  stesso comportamento di Re Carlo di Borbone fu prudente e non certamente  severo.
 Peraltro,  ripercorrendo gli eventi che si verificarono in così breve tempo, contro  l’Ordine Massonico ed il suo Gran Maestro, non può non riconoscersi  l’inevitabilità che il di Sangro, il quale si era trovato al centro della bufera,  lasciasse la carica di Gran Maestro.
 Le  dichiarazioni rese e le lettere inviate al Sovrano ed al Pontefice, non furono  certo una rinuncia alle idee che aveva fatte sue, con piena convinzione, da  uomo di cultura.      Esse vennero  rilasciate, per motivi contingenti, e certamente non senza rammarico.
 Raimondo  di Sangro, in un momento particolare, della Massoneria e del regno di Napoli,  convinto di aver evitato il peggio ai Liberi Muratori napoletani, con il suo  comportamento, preferì ritirarsi silenziosamente, senza rinunciare alle sue  idee, per dedicarsi agli studi preferiti ed alle  sue ricerche .
 Ma  dopo esserci soffermati ad esaminare il periodo storico nel quale visse ed  operò, quella che fu la sua azione quale Libero Muratore e Gran Maestro della  Massoneria napoletana, prima ancora di portare la nostra meditazione sulla  simbologia del Tempio che egli lasciò alla posterità, soffermiamoci sia pur  brevemente a considerare l’uomo e la sua azione scientifico-culturale sotto  l’aspetto esoterico, nonché dei particolari studi da lui condotti e degli  Ordini esoterici dei quali certamente fece parte.
 Alla  luce di questo particolare aspetto del Raimondo di Sangro “Iniziato”, potremo  di sicuro meglio comprendere i suoi comportamenti, la sua azione scientifica e  culturale e la simbologia che ci ha lasciato, quale ultimo insegnamento, nel  suo Tempio.
 Raimondo  di Sangro, fu uno spirito eletto, di quelli che appaiono periodicamente, nella  storia dell’umanità. Alla vita mondana, piena di piaceri e dissolutezza che il  suo rango e la sua situazione economica gli offrivano, preferì la solitudine  dello studio, della meditazione e della ricerca tuffandosi, con amore immenso,  al servizio dell’umanità, nel cuore infinito della Sapienza, alla ricerca della  Verità.
 Trascorre  le sue giornate assorto nello studio, preso dalla meditazione, ricercando,  sperimentando, fra storte e lambicchi. Fu particolarmente versato nello studio  della scienza in genere, della chimica e dell’alchimia. Fra le sue tante  scoperte, molte delle quali di particolare interesse esoterico, vi è la «lampada perpetua» riportata in molte  opere Rosacrociane, questa dopo essere rimasta ininterrottamente accesa per un  periodo di tre mesi, per un fatto puramente accidentale, si spense ed il Di  Sangro volle distruggerne ogni traccia. Si salvarono solo le descrizioni che ne  fece nelle lettere da lui scritte ad alcuni membri dell’Accademia delle Scienze  di Parigi.
 Così come abbiamo prima ricordato, che  Raimondo di Sangro fu il primo a costituire nella Massoneria napoletana Logge  di Rito Scozzese, non può sottacersi che egli rinverdì il Rito di Misraim,  riallacciandosi al centro occulto legato all’Egitto che è sempre esistito nel  napoletano.
 Infatti,  scrive Francesco Brunelli nella sua opera sul Rito di Memphis e Misraim: «Secondo Usekaf a Napoli è esistita per  secoli una catena iniziatica risalente all’antico Egitto ed i gruppi esoterici  che nell’andar del tempo si sono succeduti all’Eggregoro superindividuale di  una corporazione di Egizi esistente a Napoli, sin dall’età imperiale e forse  molto prima, nella zona attualmente denominata Via Nilo e Piazzetta Nilo.  Essendosi gli Egizi assimilati nei secoli agli altri napoletani, sarebbe  rimasto l’eggregore del culto egizio, adattato a Fratellanza Magico-Ermetica» . È  comunque evidente che le concezioni esoteriche mediterranee, che ebbero a  manifestarsi attraverso la linea ermetico-egizia e quella  pitagorico-cabalistica trovarono nei movimenti Rosacrociani e Massonici  napoletani le loro migliori manifestazioni ed il Di Sangro secondo il  Francovich “era probabilmente collegato  con un gruppo di Rosa+Croce che pur dovevano esistere in Napoli” . Non  si può peraltro ignorare che la tipografia del nostro Principe, secondo il  Soriga ,  pubblicò alcuni opuscoli massonici, dei quali uno molto importante, in quanto  riportava la prima elaborazione del Rito di Misraim.
 È  proprio con il Principe di Sansevero che dobbiamo rilevare:
 1°  - il distaccarsi della Massoneria dall’Ortodossia Cattolica ed il suo aprirsi a  ricerche esoteriche;
 2°  - la costituzione, fra gli uomini che gravitavano intorno al Di Sangro, di un  nuovo Rito, identificato dal Soriga in quello di Misraim;
 3°  - l’azione educatrice evidenziatasi mediante la formazione di  discepoli, fra i quali  il barone Tschudy, creatore della stella fiammeggiante  e di un sistema massonico impostato sullo studio dell’ermetismo e  dell’alchimia, meglio noto, come Ordine dei Filosofi Incogniti.             Da quanto abbiamo fin qui ricordato  appare evidente, sia dalla sua azione che dagli scritti suoi o ritenuti suoi,  nonché dalle opere pubblicate dalla sua tipografia, la sua grande cultura  ermetico-cabalistica nonché la sua formazione Rosacrociana. Peraltro, anche  nella Cappella gentilizia della sua famiglia poi divenuta «Cappella di  Sansevero», esistono espliciti riferimenti cabalistici, nella disposizione  delle statue simboliche, nonché precisi riferimenti ai Rosa+Croce, in varie  statue, anche se con maggiore evidenza in quella della “Pudicizia” e  nell’altare maggiore della Cappella, attraverso le due teste, una maschile e  l’altra femminile, disposte al di sopra del bassorilievo della “Deposizione”.
 È  fuori di ogni dubbio che Raimondo di Sangro, da vero Rosa+Croce, con la sua  mente aperta ad ogni tipo di studio, cercò di leggere il Grande Libro della  Natura per comprenderne il profondo significato. Le sue scoperte scientifiche e  militari vollero essere un modo per avere il dominio dell’Universo.
 Egli  da perfetto adepto dell’Ordine dei Rosa+Croce, volle penetrare i livelli  profondi dell’esperienza religiosa, sollevando i sette veli del  Sancta-Sanctorum della Divina Sapienza, afferrandone il segreto significato.
 E  da quell’Iniziato che fu, seppe conservare il Segreto, pur riuscendo in  attuazione alla concezione Rosacrociana a trasformare questa sua presa di  coscienza della Verità, in servizio a favore dell’umanità, nell’immensa  profonda simbologia che lasciò ai posteri, nella sua Cappella. Raimondo di  Sangro che aveva cominciato il suo percorso iniziatico sollevando il velo nel  misterioso Rito egizio di Misraim, era un alchimista che attraverso lo studio  della cabala e dell’ermetismo, si era avvicinato all’Ordine Rosacrociano,  divenendone un adepto, come dimostrano i suoi studi, le sue scoperte, la stessa  simbologia che volle dare ai gruppi simbolici della Cappella di Sansevero.
 Fu uno di quelle guide dell’umanità che solo  periodicamente compaiono su questa terra, per essere di esempio, con l’azione e  con il servizio che all’umanità stessa rendono. Raimondo di Sangro, che pur  essendo vissuto nell’Era dei Pesci, era nato sotto il segno astrologico  dell’Acquario, seppe essere, con l’azione di tutta la sua vita operosa, uno  spirito puro proiettato nell’Era Nuova, ad indicare ai suoi simili, come  facendo fiorire la rosa sulla sua Croce, dovrà essere l’Uomo dalla mente concreta  dell’Era dell’Acquario. Il Principe voleva a tutti i  costi essere padrone di quella sottile linea  di confine che passa tra la vita e la morte,ossia la soluzione della  immortalità terrena.
 Si  racconta, che uccise sette cardinali e che con le loro ossa realizzò sette  seggiole, ricoprendone il fondo con la loro pelle. Si narra che,quando sentì  avvicinarsi la morte, provvide ad organizzare la sua resurrezione. L’ambizioso  progetto era quello di creare un luogo magico,dove chi avesse la conoscenza  dell'Arte Regia (l'Alchimia) e delle regole della Massoneria, avrebbe poi  decifrato il messaggio nascosto dal Principe nelle sue opere. Un messaggio tra  il sacro e profano, tra mitologia e teologia, tra il naturale ed il  sovrannaturale, il tutto coronato dalla sua ossessione verso il simbolismo e  verso quella sapienza che deriva dagli antichi Egizi.  Non più scrivendolo nei libri ma criptandolo  nelle opere raccolte nella sua,la cappella    costruita su un luogo dove anticamente vi era un tempio dedicato alla  dea Iside. Un messaggio non ancora svelato ma, come le sue opere, semplicemente  "velato" da un simbolismo allegorico. Quel "velo" sotto il  quale s'intravede la vera realtà dell'esistenza umana.
 Solo l'occhio attento di colui che ha  intrapreso il cammino dell'iniziato riuscirà a carpirne il vero significato. Un  significato che non ha più nulla di arcano se la conoscenza ha donato le  chiavi.
 In tal modo si spiega anche l'uccisione dei  sette cardinali e sette è il numero dell'Illuminazione e corrisponde alle sette  chiese dell'Apocalisse o ai "Sette  Saggi" dei libri della fondazione egizia, iscritti sulle pareti del  tempio di Horus a Edfu. Si tratta, della forza del serpente che si snoda lungo  la colonna vertebrale dell'uomo e che, attivando tutti i sette centri  energetici, dona illuminazione e vita eterna.
 Un simbolismo che si ritrova nel caduceo del  dio Mercurio, presente all'interno della cappella nelle mani della statua della "Sincerità".
 Il simbolismo che impiegò il de Sangro,  probabilmente volontariamente "mitizzato"  dai suoi "discepoli", è  riscontrabile proprio sull’altare della cappella, dove è visibile un volto  dorato di chiara ispirazione sindonica.
 Gli alchimisti, eredi di una tradizione  antica, consideravano la Sindone quale"veste  del corpo di gloria" del risorto, cioè il raggiungimento della Pietra  Filosofale. Questo spiega anche perché il Principe volle nella sua cappella la  statua di un Cristo "velato"  dalla Sindone  in quanto essa era simbolo  di quell’immortalità dalla quale era tanto ossessionato. Il principe se ne  andava in un giorno di primavera. Il 22 marzo 1771, Sessantun anni appena  compiuti. Un uomo relativamente ancora giovane. Che da tempo, però, avvertiva  dolori, soffriva.
 Aspettava, da un giorno all'altro, che  la sua compagna di sempre, la morte, lo chiamasse a sé per l'ultima e  definitiva volta, E serenamente era spirato, in pace con se stesso e con la  Chiesa come attesta l'atto di morte: "A'  22 Marzo 1771.L'eccellentissimo Signor don Raimondo de' Sangro, marito della  eccellentissima signora donna Carlotta Caietani d'Aragona, Principe di  Sansevero, abitante nel proprio palazzo, ricevuti i Santissimi Sacramenti, morì  in Comunione di Santa Chiesa, a di detto, e fu seppellito nella propria  Cappella pubblica; era dell’età 62 anni circa" .
 Destino  curioso. Morto lui, si perde ogni traccia delle sue mirabolanti invenzioni. Ne  resta una descrizione non sempre chiara, negli scritti di suo pugno o da lui  ispirati, nulla più. Volatili, pura intenzione, restano una serie di opere  spesso annunciate mai tradotte nero su bianco;
 I  funerali furono solenni, fastosi, come si addiceva a un
 nobile del suo rango. Tra velluti, ori, argenti, la pompa, e anche questo era  da mettere in conto, prese il sopravvento sulla tristezza, che solo si poteva leggere  nei tratti tirati di Carlotta Gaetani e nello sguardo compunto di qualche  amico. La primavera aveva fatto il suo ingresso proprio il  giorno precedente.
 
 Le  cronache raccontano che, quel 22 marzo, il sole splendeva alto sul golfo di  Napoli.
 E.S. 2006   Note:
 
 Bibliografia  Essenziale:
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                      vedi la corrispondenza del Nunzio Gualtieri col Cardinale  Valenti, (Archivio Segreto Vaticano. Nunziatura di Napoli, volI. 233-238),  pubblicata da P. Sposato (Documenti  vaticani per la storia della Massoneria nel Regno di Napoli al tempo di Carlo  III di Borbone, Tivoli 1959). 
                      G. Moncada principe  di Calvarusso oppure Gennaro Carafa della Roccella 
                      Curioso Dilettante: Istituto  o sia Ordine dei Liberi Muratori nel Regno di Napoli. in G. de Blasiis: Le prime Loggie dei Liberi Muratori a Napoli,1905,  Stolper : La Massoneria settecentesca nel  Regno di Napoli,   in "Rivista  Massonica" n. 10, dicembre 1975     in C. Miccinelli: E Dio creò l'Uomo e la Massoneria, ed. ECIG, 1985, p.243-308. 
                      In rivista massonica "Luce e Concordia",Napoli  1886 e  P.Maruzzi: Sulla prima Loggia massonica in italia, in "Rivista Massonica,  voI. XLVIII, giugno 1918. 
                      redatto nel 1804 "Colpo  d'occhio su la condotta de' Patrioti durante la repubblica Napoletana nell'anno  1799, e sopra quella di Ferdinando IV ..descritto da Emanuele Palermo da  servire per intelligenza di coloro che leggeranno la storia di quella  rivoluzione" riportato da F. Bramato: Napoli massonica nel settecento attraverso un manoscritto di Emanuele  Palermo, in "Rivista Massonica" n.8, 1978, p.453-473. 
                      R. di Castiglione (Alle  sorgenti della Massoneria) identifica la traduzione del discorso di  Ramsay   con il manoscritto dal titolo Le Obbligazioni d'un Franco Muratore,  inviato da Carlo III al Papa il 10 agosto 1752; cfr. I.Rinieri: Della rovina di una monarchia. Relazioni  storiche fra Pio VI e la Corte di Napoli    'Archivio Vaticano. 
                      Ed Stolper: La Massoneria settecentesca nel Regno di Napoli,  in "Rivista Massonica" n. 10. 1975, p.594.    R. Soriga Le Società Segrete,  Modena  1942. 
                      Lo stesso Federico di Prussia, quando era Principe  ereditario, fù inziato nella stessa notte, dal 14 al 15 agosto 1739, prima come  Apprendista, poi come Compagno ed infine come Maestro, ma attese ben sei anni  prima di divenire Gran Maestro, dopo che la Loggia berlinese "Zu den drei  Weltkugeln" era stata elevata a Gran Loggia Madre  ; R.di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria). 
                      G.Gamberini: Mille  volti di Massoni, ed Erasmo, Roma 1975,   . R. di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria. 
                      H.T.Tschudy: L `Etoile Flamboyanze   in R di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria 
                      Le Costituzioni  della Società de Liberi Muratori Poste in ordine nuovo Dal ex G..M..E..S..T.. D.. G..M.. Per uso della Gran Loggia Nazionale e Logge di sua  dipendenza..1750. in   B. Clavel: Storia della Massoneria, Napoli 1873  Diversi storici della Massoneria ritengono  che il documento sia stato stampato in data successiva (De Blasiis,  ; Soriga,   ; M P. Azzurri,   E Stolper, 
                      Lettera  Apologetica, p.2l0. 
                      R Guenon. Simboli  della Scienza sacra, ed. Adelphi, Milano 1975, p 76 ss. 
                      Origlia, Dello Studio  di Napoli. 
                      Lettera Apologetica, p.2O8 
                      Vedi l'orazione del Principe di Sansevero riportata  nell'opera di H.T. Tschudy  "Sono molto lusingato di potervi dare questo titolo, e di poter col  tempo rivelarvi tutte le gloriose prorogative che esso comporta. Accettati, per  il vostro medesimo desiderio e per un suffragio che vi assicurano le vostre  qualità personali, nella nostra rispettabile società, dopo aver sfidato i  pregiudizi del secolo, le opinioni del profano, dopo aver superato con costanza  precisa le prove differenti che vi hanno condotto nell’augusto santuario della  massoneria, è infine giusto che vi metta a parte della luce che avete cercato  con tanta cura, e non contento di aver colpito i vostri occhi con il vivo  fulgore dei suoi raggi, che io vi riscaldi il cuore, lo animi, illumini la  vostra anima e il vostro spirito, svelandovi i misteri delle nostre logge,  facendovi conoscere il vero oggetto dei lavori, lo scopo vero della nostra associazione,  le regole per la nostra condotta ed i principi della nostra morale.
 Tutto ciò che facciamo è relativo alla virtù, è il suo tempio che noi  costruiamo, e i semplici e grossolani strumenti di cui facciamo uso non sono  che i simboli dell’architettura spirituale di cui ci occupiamo. Voi vedrete,  fratelli, avanzando nei gradi dell’Ordine, cosa che il vostro zelo meriterà  senza dubbio, fino a che punto l’allegoria ne sia sottilmente sostenuta: io  posso, per adesso, rivelarvi solo quei segreti ai quali lo stato di apprendista  vi permette di essere iniziati: non traccerò la storia della nostra origine;  consultate i libri santi, voi la troverete all’epoca della sublime costruzione  che consacrò con la saggezza del più grande dei re, un magnifico monumento alla  gloria e al culto dell’Eterno. ...
 Questa breve spiegazione, fratelli, dissipa il prestigio che vi ha potuto  preoccupare prima di conoscervi... noi non ci lasciamo ingannare né dai nostri  principi, né dai nostri sentimenti: riuniti dallo stesso zelo noi siamo  fratelli e ne facciamo gloria... Opere simili di una stessa provvidenza, siamo  tutti uguali, la nascita, i ranghi, la fortuna non ci fanno uscire da questo  giusto livello... Uomini semplici, modesti nei piaceri, essenziali nelle  amicizie, fermi negli impegni, puntuali nei doveri, sinceri nelle promesse."
 
                      Origlia, Dello Studio  di Napoli 
                      Breve Nota, ed. cit. p.37; cfr Griglia, op cit p 379 ss. 
                      Lettere del Signor  D.Raimondo di Sangro, Principe dì Sansevero dì Napoli sopra alcune scoperte  chimiche indirizzate al Signor Cavaliere Giovanni Giraldi Fiorentino e  riportate nelle Novelle Letterarie di Firenze del MDCCLIII, Napoli     a cura di  A Crocco, Napoli 1969) 
                      Dissertation sur une lampe antique trouvée è Munich en  l'année 1753 ecrite par Mr. le Prince de St. Sevère poter servir de Suite a la  prèmière parde des ses lettres a Mr l'Abbé Nollet à Paris, sur une découverte  qu'il a faite dans la Chimie avee l'explication Phisique de ses circonstances. 
                      F.Brunelli: Rituali  dei gradi simbolici della massoneria di Memphis e Misraim Bastogi pp 28/29. 
                      C Francovich : Storia  della Massoneria in Italia 1975 Firenze. 
                      R. Soriga : Le società  segrete Modena 1942.       L’eredità dell’Egitto tra paganesimo ebraismo e cristianesimo (G. Rinaldi)  1. Premessa. 2. Le eredità  del paganesimo: l’allegorismo, Iside, l’Ermetismo, l’antigiudaismo  alessandrino, Celso. 3. L’eredità del giudaismo: la Septuaginta, Filone  alessandrino e il platonismo allegorizzante. 4. L’eredità del cristianesimo:  dallo gnosticismo alla scuola alessandrina, il monachesimo copto.
 Il termine e la raffigurazione dell’Egitto ha sempre esercitato  nell’immaginazione, anche dell’uomo di cultura, una forza di fascinazione e di  attrazione unica. Le cause sono molteplici, a mio avviso riconducibili  essenzialmente a due: 1. il mistero che avvolge una civiltà così antica e  diversa dalla nostra; 2. la ricca varietà di stratificazioni ed apporti etnici,  linguistici, artistici, religiosi e, in una parola, culturali che riscontriamo,  unica, in questa terra posta quale opulento crocevia tra l’entroterra  dell’Africa nera, l’Asia delle civiltà del Vicino Oriente Antico ed il  Mediterraneo ellenistico romano.E’ soltanto per una semplificazione convenzionale, dunque, che un unico  termine ‘Egitto’ va propriamente riferito a quella regione la quale vide  succedersi, in prosieguo di tempo la civiltà faraonica, quella ellenistica dei  Tolomei, quella romana e quella copta. Tutto ciò ebbe luogo prima  dell’invasione araba che introdusse ulteriori cambiamenti profondi e di  sostanza. Durante queste quattro grandi periodizzazioni, giova ancora una volta  ripeterlo, la terra d’Egitto fu in ogni momento un mosaico policromo e  stratificato di lingue, etnie e culture diverse ma conviventi. Si pensi alle  stratificazioni proprie dell’età romana imperiale: il contadino avvezzo alla  silente fatica quotidiana dei campi, l’ellenista insediatosi al sèguito di  Alessandro e della dominazione dei Tolomei Lagidi, il romano addetto  all’amministrazione di questo che, a sèguito del bellum actiacum, dal 31 a.C. era diventato possedimento privato  dell’imperatore rappresentatovi da un suo paefectus  Aegypti. E’ dunque improprio parlare di cultura egiziana, mai come in  questo caso il plurale è d’obbligo.
 Forse è proprio a causa di questa ricchezza che l’Egitto è, tra le  civiltà antiche, una di quelle la cui eredità ha avuto modo di penetrare con  una profondità ed una ricchezza di articolazioni ancora oggi non sufficientemente  esplorate. Le culture dell’Egitto sono come fiumi carsici che c’incantano con  il loro scorrere celato ed il loro riemergere inaspettato.
 Questa mia breve relazione non intende (né potrebbe mai) costituire una  sia pur sintetica panoramica di queste civiltà che raccogliamo nel nome mistico  ed iniziatico d’Egitto, essa vorrebbe invece essere una sorta di indice  parziale o, se preferite, di sottolineatura di alcuni filoni culturali che  ebbero a confrontarsi, scontarsi, comporsi e così via in quei luoghi . Sarà  dunque un percorso molto breve che si sforzerà di essere equidistante da Scilla  e da Cariddi, laddove Scilla è costituito da un approccio soltanto  economicistico e prammatico ai fatti della storia, e Cariddi, al contrario, è  costituita dalle nebbie di una moda egittizzante che ha creduto di poter far a  meno del sobrio metodo “storico critico”.
 Un osservatorio privilegiato per cogliere le ricchezze tradizionali  della terra nilotica è costituito dall’età romana imperiale la quale prolunga,  per così dire, i lasciti dell’ellenismo tolemaico ed anticipa il profilo  dell’età bizantina e copta.
 Certamente la storiografia e la letteratura augustea furono  condizionate dalla propaganda della guerra civile tra Ottaviano e Marco  Antonio, che fu interpretata e presentata come lo scontro supremo tra Roma ed i  mostri dell’Oriente. La ierogamia di Tarso tra Marco Antonio e Cleopatra,  agghindati l’uno da novello Dioniso e l’altra da Iside regina, sconvolse  nell’Occidente romano i sostenitori del mos  maiorum talché l’esito del bellum  actiacum e l’aspide che pose fine alla fascinosa ultima regina dei Tolomei  fu salutato come la fine di un incubo. L’Egitto, una volta conquistato, non fu  neanche ridotto a provincia romana, bensì a possedimento dell’imperatore che vi  inviò a governarvi un praefectus di  rango equestre.
 Eppure, già pochissimi decenni dopo, questo Egitto militarmente  sconfitto seppe prendersi la sua rivincita sull’orbe romano. Già dopo il  principato di Tiberio il giovane Caligola fu così egittizzante da essere poi  presentato dalla storiografia senatoria come un folle dissennato. In età  flavia, verso la fine del I secolo d.C. il poeta satirico Giovenale si  lamentava perché le acque del Nilo avevano contaminato il Tevere. Ma furono le  tre grandi esperienze religiose dell’antichità che seppero illuminare il  profilo dell’Occidente secondo formule che proprio in Egitto erano state  elaborate: ex Oriente lux: il  paganesimo, l’ebraismo ed il cristianesimo ‘ellenizzante’.
 E’ in ogni caso doveroso premettere che soltanto in via teorica noi  possiamo distinguere queste tre forme della religiosità antica. Distinguere,  però, non significa separare. Ed in realtà nel vivo flusso della vita culturale  e spirituale dell’uomo antico elementi dell’una e dell’altra fede si  accostavano, reagendo l’uno all’altro, fondendosi e dando così luogo a ciò che  convenzionalmente chiamiamo ‘sincretismo’, oppure trasponendosi da  un’esperienza religiosa all’altra successiva e dimostrando così che il sacro  non si dissolve, bensì rivive in mutate spoglie: desinunt ista non pereunt.
 2.1. Il fascino dell’allegoria.L’allegorismo  è una  metodologia esegetica tipica della cultura alessandrina. Esso nacque a  proposito dell’interpretazione dei poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, i  quali raffiguravano spesso gli dèi in preda a sentimenti umani come la collera,  l’invidia, l’ira etc. Alla luce di una sensibilità di tipo filosofico religioso  più evoluta, questi tratti, come in generale quasi tutte le narrazioni dei miti  antichi, non risultavano più moralmente accettabili. Tuttavia tali storie, per  la loro antichità, non potevano essere rigettate a cuor leggero poiché erano  comunque circonfuse da un alone di rispetto e di venerazione. Dunque si trovò  opportuno ricorrere ad una loro interpretazione allegorica secondo la quale il  significato vero del testo non era quello che la sua immediata lettura  suggeriva, ma era diverso e più profondo. I filosofi stoici, in particolare,  fecero ricorso ai metodi dell’esegesi allegorica e, così facendo, conciliarono  i dati della tradizione con quelli della sensibilità scientifica della loro  epoca .
 L’allegorismo fu un dono dell’Egitto ellenistico all’umanità. Vedremo  a suo tempo come, ad Alessandria, anche giudei e cristiani fecero proprio il  metodo allegorico per intendere le loro Scritture. Nel mondo antico ed in  quelli medioevale, l’allegoria costituiva la maniera più alta e compiuta  dell’espressione, ed il metodo allegorico per intendere uno scritto  significativo era quello che, con definizione moderna, potremmo dire ‘scientifico’.
 Mito ed allegoria andarono sempre di pari passo. Il loro velare e  svelare nello stesso tempo la realtà, a guisa del mitico velo di Iside,  costituiva un aspetto caratterizzante dell’approccio filosofico alla conoscenza  religiosa: soltanto le menti elette ed ‘iniziate’ potevano accedere alla gnosi  superiore, cioè sollevare il velo, mentre il popolo ‘profano’ doveva limitarsi  alla veste esteriore, alal scorza di ogni discorso.
 2.2. Iside.Il culto di queste divinità  ci è  noto principalmente grazie al dialogo De  Iside et Osiride scritto da Plutarco di Cheronea, ed all’undicesimo ed  ultimo libro del romanzo iniziatico Le  metamorfosi scritto da Apuleio di Madaura. Secondo il mito che è alla base  dell’esperienza cultuale, Osiride, sposo di Iside, sarebbe stato un re divino  dell’Egitto. Indotto dal malvagio fratello Seth ad entrare in una cassa, fu  spodestato e gettato in mare. Il suo corpo fu poi smembrato in quattordici  parti. Dopo una lunga e laboriosa ricerca, Iside riuscì a ritrovare le sparse membra  del marito, a ricomporle ed a rendere così ad Osiride novella vita quale re del  mondo degli inferi. Dall’unione di Osiride con Iside nacque Horus che vendicò  il padre. Apuleio fu un iniziato ai misteri isiaci; dai sobri accenni alla sua  esperienza congetturiamo che il rituale iniziatico comprendeva una mistica  morte ed una risurrezione, così come una rappresentazione della discesa agli  inferi.
 Ecco il testo dell’accorata preghiera ad Iside formulata da Apuleio di  Madaura (II sec. d.C.) prima della sua iniziazione:
 «Tu sì sei santa, tu sei in ogni tempo salvatrice dell’umana specie,  tu, nella tua generosità, porgi sempre aiuto ai mortali, tu offri ai miseri in  travaglio il dolce affetto che può avere una madre. Né giorno né notte né  attimo alcuno, per breve che sia, passa senza che tu lo colmi dei tuoi  benefici; tu per mare e per terra proteggi gli uomini, allontani le tempeste  della vita e porgi con la tua destra la salvezza, tu sempre con la tua mano  sciogli le fila che il destino aggroviglia in nodi inestricabili, tu calmi le  bufere della fortuna e poni un freno alle funeste rivoluzioni delle stelle. Te  onorano gli dèi del cielo e rispettano quelli dell’inferno, tu fai ruotare la  terra, dai la luce al sole, governi l’universo, calchi col tuo piede il Tartaro.  A te obbediscono le stelle, per te ritornano le stagioni, di te si rallegrano i  numi, a te servono gli elementi. Al tuo cenno spirano i venti, offrono il  nutrimento le nubi, germogliano i semi, crescono i germogli. La tua maestà  temono gli uccelli vaganti nel cielo, le fiere erranti per i monti, i rettili  celantisi nel terreno, i mostri nuotanti nel mare. Povero è il mio ingegno nel  cantare le tue lodi, scarso il mio patrimonio nell’offrirti sacrifici, la mia  voce non ha sufficiente ricchezza per esprimere i sentimenti che m’ispira la  tua maestà; e non ci riuscirei neppure se avessi mille bocche e altrettante  lingue, neppure se potessi parlare senza stancarmi per tutta l’eternità. Perciò  quel poco che può un tuo fedele ma povero seguace io cercherò di farlo: le tue  divine sembianze e la santissima tua volontà, ora che le ho raccolte  nell’intimo segreto del mio cuore, le custodirò in eterno e sempre le  contemplerò nell’animo mio». Metamorfosi 10,25 .
 Templi di Iside erano diffusi un po’ dappertutto nel mondo romano e la  dea, identificata poi con il principio vitale che alimenta l’universo, fu al  centro di una pietà calda e personale. Alcuni tratti della devozione isiaca  ricordano, anticipandoli, quella che sarà la più tarda pietà mariana .  Nell’iconografia isiaca diffusa in Egitto, ad esempio, la dea è raffigurata  mentre allatta Horus bambino (Isis lactans); il soggetto ricorda la più  tarda raffigurazione della Vergine che allatta Gesù ben diffusa nell’arte copta .
 Altra importante divinità il cui culto, originario dell’Egitto, si  diffuse in età imperiale in tutta l’ecumene mediterranea ed oltre è Serapide . Si  tratta di un prodotto del sincretismo religioso ellenistico nel quale i tratti  di Osiride e di Apis si fondano con il carattere universalistico dello Zeus  greco, ma anche di Dioniso e di Asclepio. Serapide fu venerato come divinità  cosmica e solare (EŒj ZeÝj S£rapij `/Hlioj  kosmokr¦twr ¢ne…khtoj) e fu raffigurato col volto barbuto e  l’espressione austera ad un tempo e benevola. Ebbe importanti santuari a Memfi  e ad Alessandria. Quest’ultimo venne distrutto dai cristiani al sèguito del  patriarca Teofilo ;
 2.3. Ermetismo.
 La tarda antichità ci ha trasmesso un corpus di diciotto scritti attribuiti al dio Hermes, detto «tre  volte grande», cioè Ermete Trismegisto . I  trattati furono composti in età romana imperiale ma raccolti in una collezione  soltanto successivamente, tra il secolo VI ed il IX. L’insegnamento di questi  testi, pur presentando importanti elementi comuni, non appare omogeneo ed  organico. Si tratta, infatti, di opere varie per provenienza e data di  composizione. Se fosse possibile avanzare un’ipotesi potremmo forse dire che in  queste si riscontra un’evoluzione di pensiero la quale, partendo da elementi  mitologici di derivazione egiziana pervasi di dualismo, procede verso una  visione spirituale ed unitaria del cosmo nell’àmbito della quale l’individuo,  da ‘iniziato’, scopre la sua dimensione divina. Questo corpus non è però l’unico contenitore di insegnamenti attribuiti ad  Hermes; altre opere, questa volta ancòra più varie per contenuto, età ed  estensione costituiscono la testimonianza di una corrente di pensiero  genericamente denominata “ermetismo popolare”.
 Il principale trattato del corpus è il Pimandro che tratta delle  origini del cosmo, della creazione dell’uomo e delle vie di salvezza che a  quest’ultimo si prospettano. Il trattato ha la forma di una rivelazione  articolata con domande e risposte date da Poimandres, lo spirito della potenza  suprema, una figura ‘apocalittica’.
 Ecco in breve l’insegnamento del Pimandro:  l’Iddio supremo, che è luce, non è il creatore del mondo. Egli, invece, ha  prodotto da sé «un altro spirito creatore del mondo» (Noàj, Nous = intelletto celeste), insieme a  sette sovrintendenti di sette sfere che avvolgono il cosmo. Ciò che esiste  nella natura è il prodotto della eterna rotazione di queste sfere alle quali  anche la natura stessa deve sottostare. Si passa poi alla creazione dell’uomo  primordiale per descrivere la quale si riecheggia la fraseologia del libro  biblico del Genesi: il primo uomo è  creato da Dio stesso e ne riproduce l’immagine; è amato da Dio che gli ha  sottoposto la creazione. Costui è tuttavia preso da malsana emulazione e  desidera anch’egli mettersi a creare; in ciò viene coadiuvato dai sette  sovrintendenti che gli danno potere. L’uomo primordiale, nel pieno della sua  fulgida bellezza, si specchia nella natura creata e ne suscita l’amore;  anch’egli, vistosi nel riflesso delle acque e nelle ombre della terra  s’infiamma di desiderio e desidera abitare in quella natura. Così avviene la  caduta dal mondo superiore dell’uomo archetipo e la nascita dell’uomo  terrestre, condizionato dagli elementi della natura e sottomesso al destino. E  ciò spiega anche perché l’uomo ha in sé una componente superiore (divina), partecipe  dell’immortalità e dominatrice su tutte le cose e, tuttavia, è schiavo di  questi stessi elementi, bramoso di amore e di riposo. La sessualità ed il  desiderio di riproduzione sono l’esito della ‘caduta’ dell’uomo primordiale; ma  chi conosce il nucleo divino che è in sé, rinuncerà all’amore del corpo e delle  realtà materiali, insieme alle passioni a queste connesse. Al momento della  morte, inoltre, il corpo si disfa nei suoi vari elementi, ma l’anima  dell’iniziato intraprende un viaggio di liberazione attraverso le sette sfere  planetarie. Qui, in ordine e successivamente per ciascuna sfera, si libera  dapprima dal potere di crescere e decrescere, dall’attaccamento al male, dal  desiderio ingannevole, dalla sete di potere, dall’empietà e dalla temerità,  dalla brama di ricchezza, dalla menzogna. Nell’ottava sfera, poi, si sperimenta  la divinizzazione dell’anima. Questo mito di cosmogonia e di salvezza  costituisce una gnosi (sapienza) che ogni iniziato avrà desiderio e còmpito di  diffondere all’umanità la quale giace abbandonata nell’ubriachezza e nel sonno  dell’errore.
 Altro trattato significativo è il tredicesimo che riguarda la  rigenerazione dell’uomo non attraverso un particolare rituale, ma tramite la  conoscenza di Dio. Questa gnosi è trasformatrice perché rende chi la detiene  diverso a se stesso: è infatti consapevolezza di esser parte della divinità.  L’esperienza fa acquisire le dieci virtù che   rendono giusto, cioè figlio dell’Uno.
 I  testi che riflettono le tendenze del cosiddetto ‘ermetismo popolare’ incorsero  nelle censure della Chiesa per il loro carattere magico - pagano. Oggi possiamo  averne una idea grazie alle scoperte di papiri i quali, però, ci restituiscono  brani soltanto parziali di opere che, in origine, dovevano essere più ad ampio  respiro. Il più vasto di questi testi è il grande  papiro magico di Parigi, scritto su 36 pagine; esso ci restituisce una  liturgia (con preghiere, gesti ed invocazioni) che fu dapprima creduta relativa  al culto di Mitra ma che, invece, è da considerarsi un testo di magia  sincretistica che aiuta il celebrante a sperimentare la purificazione  spirituale e l’esperienza dell’unione con Dio.
 Oggi non si enfatizza più la distinzione tra ermetismo ‘filosofico’ ed  ermetismo ‘popolare’, ma si preferisce prestare attenzione alle varie  componenti culturali che confluiscono in una corrente di pensiero,  genericamente definita ermetica, nella quale si riscontrano motivi della  religiosità egiziana, babilonese, iranica, giudaica, così come influssi di  Platone, dei pitagorici e degli stoici.
 Gli scritti ermetici ebbero una vastissima circolazione, anche in  àmbiti cristiani: ricordiamo che tra i libri della biblioteca gnostico -  cristiana di Nag Hammadi v’è anche una copia dell’Asclepius ermetico. Ed in realtà l’ermetismo può dirsi imparentato  con quel vastissimo mondo di correnti di spiritualità e di pensiero che noi  definiamo gnosticismo. Dello gnosticismo, infatti, esso condivide il mito  centrale: la caduta dell’anima divina nella gravità del corpo materiale,  l’esigenza del ricongiungimento alla patria celeste, l’ascesi preparatoria alla  grande liberazione che è perseguita non secondo l’assunto della fede, bensì in  virtù di una rivelazione di conoscenza e di sapienza.
 2.4. Antigiudaismo alessandrino.Tutto quanto è stato detto contro il popolo giudaico nel corso della  storia moderna e contemporanea affonda le sue radici in una corrente letteraria  prodotta in Egitto, ad Alessandria, da autori pagani. Questa letteratura Adversus Iudaeos è pervenuta soltanto  molto frammentariamente, in gran parte grazie alla confutazione apologetica che  ne ha fatto lo scrittore giudeo di lingua greca Flavio Giuseppe .  Dopo la disfatta del suo popolo e la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel  70 d.C. costui, infatti, s’impegno ad accreditare una immagine positiva del suo  popolo presso i lettori di cultura ellenistico romana. Tra le sue opere v’è  quella Contro Apione, un letterato  pagano alessandrino che per noi costituisce la punta dell’iceberg di questa ribellistica antigiudaica.
 Gli autori impegnati a raccogliere ed a diffondere topoi antigiudaici furono prevalentemente egiziani entrati di  recente nell’orbita della civiltà ellenistica e dei privilegi sociali a questa  connessi. La loro situazione di parvenues li indusse a magnificare la storia  dell’Egitto, a raccoglierne le memorie faraoniche ed ellenistiche ed a  interessarsi della cospicua comunità giudaica in margine a queste loro  rievocazioni patriottiche. In effetti essi seppero coniugare astiosamente  l’interesse eziologico, proprio della letteratura erudita ellenistica, con  quello della controversia. Loro bersagli principali furono proprio quegli  elementi caratterizzanti dell’identità giudaica della quale, appunto, gli ebrei  solevano andar fieri: l’esodo dall’Egitto, il ruolo di Mosè e la legislazione  da costui largita. L’epopea dell’esodo, alla quale era dedicato un intero libro  biblico, fu descritta come la cacciata di gentaglia e di lebbrosi da una terra  civile. Mosè fu rievocato come la guida di questa infida consorteria, colui che  a questa diede poi uno stile di vita diverso da quello di tutti gli altri  popoli civili. Questa insistenza spiega l’attività del tragediografo giudeo  alessandrino Ezechiele (200 a.C.) il quale mise in scena l’epopea dell’esodo  del suo popolo dalla terra dei faraoni adoperando così un genere di  rappresentazioni caro e consueto per i pagani. Possiamo ricordare i nomi di  questi autori antigiudaici alessandrini, del loro lavoro rimangono solo  frammenti, come si diceva, o talvolta anche il solo vago ricordo. Eccone uno  scarno elenco secondo i secoli di appartenenza:
 IV-III a.C.: Ecateo di Abdera, rivendicò il primato della cultura  egiziana e, in questa prospettiva, presentò l’esodo come un’espulsione  dall’Egitto e Mosè come un legislatore che spinse il suo popolo verso un’esistenza  asociale.
 III a. C.:   Manetone, devoto di  Serapide, fondò la vulgata antigiudaica influenzando la successiva storiografia  greca e romana.
 II-I a.C.:  Lisimaco, pure  interessato alla storia d’Egitto, probabilmente attinse ad argomentazioni  antigiudaiche della Palestina di età maccabaica.
 I a. C.:      Timagene, maestro  di retorica dell’aristocrazia romana di età augustea, narrò dello scontro tra i  giudei ed Antioco IV e, poi,  Tolomeo  Latiro.
 I d.C.:      Apione, acerrimo  antigiudeo, attivo anche a Roma in età claudia dove portò le sue tesi che noi  conosciamo grazie alla loro confutazione composta da Flavio Giuseppe;  Cheremone, sacerdote egiziano di tendenze stoiche, precettore di Nerone;  l’imperatore Domiziano nel suo elogio (perduto) del fratello Tito conquistatore  di Gerusalemme; è questa l’epoca degli Acta  Martyrum Alexandrinorum .
 Più blandi furono invece gli autori pagani che s’interessarono al  giudaismo in area asiatica e siriano-palestinese, ciò, probabilmente, perché in  queste regioni il grado d’integrazione tra giudei e popolazione pagana  circostante fu più alto. Elenchiamo ora alcune accuse più ricorrenti, oltre  quelle connesse all’epopea dell’esodo: costituire una etnia barbarica, essere  di origine recente, essere ostili verso il genere umano e l’imperatore, essere  oziosi, praticare sacrifici umani, essere superstiziosi, empi ed atei,  distruttori dei templi degli dèi, celebrare un culto algido e triste, adorare  un dio asinino .
 Una traccia significativa delle invettive antigiudaiche è reperibile  anche grazie allo storico latino Cornelio Tacito. Infatti costui, nel libro  quinto delle sue Storie, in occasione  della narrazione della guerra tra giudei e romani del 66-70 d.C. avvertì la  necessità di offrire al suo lettore un’ampia digressione sulle origini del  popolo giudaico, ed in queste pagine egli raccolse e condensò tutto quanto  circolava negli ambienti pagani colti
 2.5. Celso.Nei primi decenni della sua storia, agli occhi dell’opinione pubblica  pagana il cristianesimo venne confuso con il giudaismo. Non si tratta di  un’approssimazione. In ciò i pagani videro con chiarezza: in realtà la  religione incentrata sulla persona di Gesù era sorta come una delle tante sette  che travagliavano il giudaismo alla vigilia della tragedia del 70 d.C. Ed era  anche vero che la religione di Gesù condivideva con il giudaismo le categorie  portanti di pensiero ed i concetti fondamentali, tutti estranei alla  sensibilità dei pagani: messianismo, Regno di Dio, Legge, peccato,  risurrezione, etc. Pertanto non ci meravigliamo di rilevare che le accuse mosse  dai pagani contro i giudei furono, senza soverchie alterazioni, trasferite  all’indirizzo dei cristiani.
 Sta di fatto, però, che nelle ultime decadi del secondo secolo d.C. la  polemica tra paganesimo e cristianesimo non coincide più soltanto con un  insieme di dicerie popolari secondo le quali i seguaci della nuova religione  sarebbero stati dediti al cannibalismo, all’incesto, alla cospirazione contro  il genere umano. A questi rumores popolari si sostituiscono adesso accuse ben meditate, frutto della riflessione  di intellettuali, talvolta esercitata anche sui testi scritturistici, base e  fondamento delle credenze tanto dei giudei quanto dei cristiani.
 Proprio in questo contesto, Celso, un intellettuale medioplatonico, fu  l’autore di un formidabile attacco all’indirizzo del cristianesimo, un trattato  dal titolo Il discorso veritiero. Il  testo, smarrito, è in buona parte ricostruibile grazie alla confutazione che ne  fece, ad Alessandria, il teologo ed apologeta cristiano Origene. Ho motivo di  ritenere che la patria di Celso sia stata la città di Alessandria o, se  vogliamo essere più prudenti, che la cultura espressa da questa città  costituisca lo sfondo delle sue riflessioni critiche. Mi limito a citare solo  re motivi che, a mio avviso, militano a favore di questa congettura: 1. Celso  conosce molto bene il variegato mondo dello gnosticismo alessandrino; 2. egli  conosce anche le accuse rivolte dai pagani ai racconti biblici del diluvio e  della torre di Babele che sono attestate anche nell’alessandrino Filone; 3.  Celso critica l’allegorismo con il quale i cristiani leggevano le loro  Scritture. Sappiamo che l’esegesi allegorica ha la sua culla, e la sua precipua  diffusione, proprio nella capitale egiziana.
 3.1. La Septuaginta.Come s’è già accennato,  la comunità giudaica di Alessandria fu la più vasta e feconda dell’intera  diaspora anche per quanto riguarda la fioritura di una produzione letteraria in  lingua greca che qui si presentò dotata di rilevanti tratti di originalità . Ad Alessandria  i rapporti tra i giudei e la popolazione locale furono tuttavia spesso tesi; al  di là delle controversie di tipo giuridico e politico che occasionalmente  infiammavano gli animi, v’era una profonda incompatibilità tra la visione  giudaica e quella greco - ellenistica. Il fiorire della letteratura giudaica di  lingua greca fu stimolato da almeno tre esigenze:
 
                  religiosa:  fornire materiale edificante ai membri della comunità della diaspora;apologetica:  difendere il giudaismo da un coacervo di accuse di varia natura ampiamente  diffuse nell’opinione pubblica popolare, ma spesso formulate anche da uomini di  cultura e da scrittori avversi alla etnia giudaica;proselitistica:  presentare la religione del popolo dell’Antico Testamento in termini  accettabili all’uomo di cultura greca. Capolavoro della letteratura giudeo ellenistica è senz’altro la  traduzione greca dell’Antico Testamento detta Septuaginta o, in italiano, la Settanta . La  leggenda relativa alle sue origini ci è trasmessa dalla Lettera di Aristea a Filocrate nella quale si narra del re Tolomeo  II (285-247 a.C.) il quale desiderò arricchire la famosa biblioteca di  Alessandria con una copia del libro sacro dei giudei e, a tale scopo, chiese al  sommo sacerdote giudeo Eleazaro di far lavorare una commissione di 72  traduttori (6 per ognuna delle 12 tribù d’Israele). Il racconto prosegue  descrivendo la miracolosa circostanza secondo la quale costoro, pur operando  separatamente, avrebbero poi prodotto testi tra loro uguali. Si parlò, quindi  dei ‘settanta (traduttori)’ in riferimento ai settanta anziani che, secondo la  tradizione, avrebbero ricevuto con Mosè la Legge sul monte Sinai. La critica  moderna sulle origini della Septuaginta si poggia, invece, su due acquisizioni  fondamentali: l’opera non fu una compilazione di getto ma il risultato di un  processo lento; le cause che ne determinarono la comparsa furono molteplici.  Diciamo sùbito che il motivo principale che spinse la diaspora alessandrina a  produrre una traduzione greca dell’Antico Testamento fu d’ordine cultuale:  bisognava sopperire all’esigenza di coloro che non erano più in grado di  comprendere la lingua dei padri, l’ebraico. Ma, oltre a questa necessità di  tipo devozionale, bisognerebbe anche tener presente quella apologetica e forse  anche proselitistica: cercare di presentare al lettore di lingua greca il testo  fondante l’identità giudaica in termini il più possibile comprensibili ed  accettabili. Al processo di traduzione non fu forse estraneo anche l’interesse  della dinastia tolemaica di acquisire i testi legislativi dei popoli ad essa  sottoposti tra i quali, appunto, vi fu fino al 198 a.C. quello giudaico. La  Septuaginta, pertanto, alla luce di tutto quanto detto, traduce e, nello stesso  tempo, “interpreta ed adegua” le asperità del testo giudaico che apparivano  intrinsecamente inaccettabili per il lettore di cultura greca. Essa sarà la  ‘Bibbia’ adoperata dai primi missionari cristiani. Sulle traduzioni della  Septuaginta gli autori cristiani dei primi secoli fonderanno la loro esegesi di  alcuni brani veterotestamentari in chiave cristologica. Questo spiega perché il  giudaismo del II secolo rigetterà la Septuaginta, esecrandola e sostituendola  con altre traduzioni greche, pure composte da giudei, quali quelle successive  di Aquila, di Simmaco e di Teodozione.Sempre nel vasto panorama della letteratura giudaico - ellenistica,  affini al genere dell’apocalittica sono gli Oracoli  Sibillini. Come s’è visto, si tratta originariamente di una raccolta di  testi pagani andata perduta nell’incendio del Campidoglio a Roma dell’82 a.C.  Di questi se ne fece quindi una ricostruzione che subì successivamente pesanti  interpolazioni sia giudaiche che cristiane; scrittori dell’una e dell’altra  religione, infatti, tentarono di attribuire in tal modo dottrine loro proprie  alla Sibilla, un’autorità ‘oracolare’ ampiamente riconosciuta nel mondo pagano.  Dunque, ecco anche perché gli Oracoli  Sibillini giudaici e cristiani devono essere considerati come scritti di  propaganda .
 3.2. Filone d’Alessandria il platonismo e  l’esegesi allegorica.Filone è da considerarsi senz’altro il più significativo rappresentante  del giudaismo alessandrino. Contemporaneo di Gesù, fu ad un tempo esegeta della  Scrittuta ed apologeta. Scopo principale di tutta la sua produzione fu quello  di conciliare l’eredità giudaica, così come appariva nei libri dell’Antico  Testamento (principalmente nel Pentateuco) con la sensibilità e gli assunti  delle scuole filosofiche ellenistiche dell’epoca sua, tra le quali specialmente  il medioplatonismo, lo stoicismo ed il pitagorismo. Dopo il pogrom antigiudaico  alessandrino del 38 fece parte della delegazione giudaica che si recò a Roma  dall’imperatore Caligola per perorare la causa del suo popolo.
 Il pensiero di Filone si fonda su un monoteismo modulato sia sulla  Bibbia che sulla filosofia di Platone. Dio, essere trascendente ed infinito, è  al di sopra della ragione umana. Egli non può entrare in contatto diretto con  il mondo e, pertanto, per crearlo e governarlo, si serve di logoi (una sorta di idee platoniche  concepite come princìpi attivi tramite le quali la materia viene plasmata) e di dynameis (potenze concepite alla  maniera stoica). Il Logos più vicino a Dio ne è anche ombra ed immagine, una  potenza che funge da intermediario tra l’assoluto ed il mondo sensibile.
 Ma questa teologia così influenzata dal platonismo non distoglie certo  Filone da una sincera fede nell’ispirazione della Scrittura. Ad essa, infatti,  è dedicata una lunga serie di commentari esegetici basati sul metodo  dell’interpretazione allegorica il quale, lungi dall’intaccare la veridicità  del racconto biblico, ne ravvisa significati ben più profondi di quelli a cui  si limiterebbe una semplice ricezione letteralistica . In  effetti le Scritture giudaiche, come e più dei capolavori omerici, presentavano  non pochi passi che sembravano inammissibili al lettore dotato di cultura  filosofica. Si pensi, ad esempio, agli ‘antropomorfismi’ con i quali Dio viene  descritto, alla sua ira, alla lunga serie di stragi che correda la storia  dell’Israele più antico, etc. Filone non soltanto applicò il metodo allegorico  ai brani biblici più ‘inaccettabili’ ma, più in generale, ne fece una chiave di  lettura della Scrittura tutta. L’esegesi allegorica sarà poi adottata e  sviluppata tra i cristiani, proprio ad Alessandria, specialmente da Origene,  nel III sec.
 4. Cristianesimo. 4.1. Dallo gnosticismo alla Scuola  Alessandrina.Il cristianesimo egiziano è da considerarsi senz’altro il più influente  nella storia della teologia. Mentre i vescovi romani si limitavano a scrivere  alcune lettere oppure a diramare direttive per la gestione dei luoghi comuni di  sepoltura, ad Alessandria fioriva il didaskaleion di Ammonio Sacca, Clemente Alessandrino ed Origene. Qui la speculazione  teologica veniva alimentata da un confronto con la filosofia greca, in  particolare con l’eredità di Platone. I vescovi alessandrini ben presto non  furono in grado di ‘controllare’ questa fioritura di pensiero che sovente,  specialmente con Origene, perseguiva strade libere ed innovative. Origene dové  rifugiarsi a Cesarea di Palestina e lì trasferire i suoi libri e la sua aula.
 Tra i problemi più spinosi della storia dell’Egitto in età romana  imperiale v’è senz’altro quello della prima penetrazione del cristianesimo.  L’ambiente di partenza dové senz’altro essere quello della vasta diaspora  ebraica. Ma quando ciò avvenne? La famosa lettera dell’imperatore Claudio agli  alessandrini, del 41 d.C., restituitaci dal Papiro londinese n° 1912, parla di  vivaci discussioni che erano di recente avvenute tra i giudei di quella città.  Per tutelare il bene della pace generale l’imperatore, che era al suo primo  anni di principato, vietò che fossero accolti predicatori giudei dalla  Palestina e minacciò, in caso di trasgressione, i più severi provvedimenti,  concepiti come contro coloro che costituivano una perniciosa pestilenza. In  passato alcuni storici, anche molto autorevoli, hanno ritenuto possibile  ravvisare in questo testo un’allusione alle controversie suscitate tra i giudei  dall’annuncio della dottrina su Gesù, ma oggi questa opinione sembra non  trovare più seguaci.
 Altro mistero: Eusebio di Cesarea in ben dieci libri di Storia  ecclesiastica non accenna mai ai primi passi della predicazione cristiana in  Egitto, pur fornendo poi doviziose informazioni sui protagonisti della fede  cristiana in questa regione dagli ultimi anni del secolo secondo ed oltre. Come  mai? D’altro canto abbiamo chiare notizie sulla straordinaria diffusione in  Egitto dello gnosticismo. Questa corrente di pensiero (filosofico e religioso)  vigoreggiò sin dagli inizi del II secolo, producendo nomi di grande calibro,  come Basilide e Valentino. Si tratta di pensatori che il grande storico tedesco  Adolf von Harnack definì come i primi teologi cristiani. Il primo commentario  al Vangelo di Giovanni fu composto, in Egitto, dallo gnostico Eracleone.  Insomma possiamo a buon diritto ipotizzare che il primo cristianesimo egiziano  sia stato ‘gnostico’; conseguentemente possiamo anche ritenere che la  gnosticismo sia stato messo in difficoltà soltanto con Origene, attivo nelle  prime decadi del secolo III. Dunque Eusebio preferì passare sotto silenzio non  solo il problema delle origini, ma anche il volto del cristianesimo egiziano  fino all’epoca del suo Origene, proprio perché non volle attribuire ai  detestati gnostici il merito di essere stati i primi ed i più ascoltati.
 Oggi noi pensiamo alle dottrine gnostici come a deviazioni dal retto  insegnamento cristiano. Ma allora, intendo dire nei secoli II e III, almeno, i  giochi erano ancora aperti e la separazione netta tra eresia ed ortodossia non  era stata ancora tracciata irrevocabilmente. Il merito degli gnostici fu quello  di aver tentato una lettura del messaggio di Gesù secondo le categorie di  pensiero in voga presso l’intellettualità dell’epoca. Se un pagano alessandrino  avesse voluto acquisire informazioni sui vangeli e sulla dottrina di Gesù,  possiamo ritenere che avrebbe preferito rivolgersi al maestro gnostico  piuttosto che al presbitero della “Grande Chiesa”, cioè di quella che sarebbe  stata poi individuata come ‘cattolica’.
 La gnosticismo non fu un fenomeno unitario, bensì un contenitore  policromo di correnti e tendenze varie, accomunate dalla convinzione che la via  di salvezza dell’anima coincideva con quella della sua liberazione, in quanto  particella divina, dal carcere caliginoso del corpo e dell’esistenza materiale.  Gli gnostici coniugavano l’assunto della loro dottrina con spunti loro  derivanti dalle misteriosofie dell’epoca, cioè dalle religioni dei misteri,  dall’orfismo, dall’insegnamento di Platone e dai mitologemi dell’Oriente,  gravidi di arcani sapienziali. Il mito gnostico, attraverso ad un gioco  fascinoso di simboli e di allegorie, proclamava e nello stesso celava la  dottrina della salvezza grazie alla conoscenza, ad una conoscenza solistica di  Dio, dell’uomo e della creazione come momenti distinti, ma non separati della  medesima realtà esistenziale. Infiniti erano i volti del pleroma divino, così  come molteplici i nomi di Dio stesso; ciò portava a proclamare l’indicibilità  dell’ultima parola sul rande arcano che cela l’abbraccio sofferto tra Dio e la  creazione. Le conventicole gnostiche, anche in terra d’Egitto, non facevano  appello alle masse al fine di convertirle. Esse, piuttosto, nel rispetto pieno  della disciplina arcani, attraverso  rituali elitari e conferimento di parole di passo per ogni iniziazione  intendevano procedere alla liberazione dei loro adepti dalla tirannia che  avvinceva la presente creazione materiale, conducendoli verso la sfera del  divino, dimora di un Dio sconosciuto, ben diverso dal maldestro demiurgo,  facitore di questa creazione gemente e dolente.
 Dunque lo gnosticismo fu dualistico in ogni suo aspetto: dicotomia tra  corpo ed anima, tra il Dio creatore (proprio dei giudei) e Dio vero e  sconosciuto, tra umanità profana ed umanità iniziata alla vera conoscenza.
 Il pensiero gnostico, come si diceva, fu messo in crisi dal grande  Origene, filologo ed esegeta cristiano che, grazie alla sua straordinaria  erudizione e capacità di pensiero innovativo, ben comprese che bisognava fare i  conti con Platone: il messaggio dell’artigiano Galileo, pensato e declinato  originariamente nelle categorie di pensiero del giudeo osservante, non avrebbe  potuto varcare i confini di quella regione del vicino Oriente se non fosse  stato, per così dire, ‘tradotto’ nelle categorie della cultura dell’epoca, e  questa cultura era il verbo di Platone. Grazie ad Origene trovò cittadinanza  piena nella teologia cristiana l’allegorismo come metodo per leggere le  Scritture, la dottrina dell’anima come entità che vive prima e dopo i suo  soggiorno nel corpo, la dottrina di Gesù come Logos, cioè ‘Parola’ divina,  persona posta in essere da Dio Padre, ma comunque persona diversa da  quest’ultimo. La teologia di Origene fu accanitamente avversata dai vescovi dei  secoli IV e V, così come, ancor prima, la filosofia greca era stata guardata  dall’alto in basso dai vescovi cristiani. Eppure la teologia della Chiesa non  trovò altra veste se non quella confezionata dall’eredità filosofica del tardo  ellenismo. Origene fu non solo pioniere, ma anche fondamento della speculazione  cristiana su Dio.
 Il nome stesso di Origene, figlio di Horus, attesta la vivacità delle  molteplici eredità dell’Egitto. Le inondazioni del Nilo non nutrirono soltanto  la silente fatica del contadino egiziano ma, sia pur in senso ‘allegorico’  fecondarono anche l’osmosi culturale tra la filosofia greca, l’eredità  d’Israele, la visione gnostica ed il dogma cristiano.
 
                  
                      Per la redazione di questo  testo mi sono avvalso di note ed appunti raccolti in vista della pubblicazione  di un mio volume dal titolo Cristianesimi  nell’antichità. 
                      Il  termine allegoria deriva dal verbo  greco ¢llhgoršw che significa “parlo per immagini”; anche l’esegesi tipologica può ricondursi a quella  allegorica, essa infatti, applicata alla Bibbia, consiste nel ravvisare in  persone e realtà dell’Antico Testamento prefigurazioni di ciò che si avrà nel  Nuovo. Sulla terminologia esegetica cfr. H. N. Bate, Some technical terms of greek exegesis, in JThS 24 (1923), pp.  59-66; AA. VV., La terminologia esegetica  nell’antichità. Atti del Primo Seminario di antichità cristiane. Bari 25  ottobre 1984, Bari 1987 (spec. M. Simonetti alle pp. 25-58: Sul significato di alcuni termini tecnici  nella letteratura esegetica greca). Primo ad interpretare in chiave  allegorica quanto si leggeva in merito agli dèi nei poemi omerici fu il  presocratico Teagene di Reggio (VI sec. a.C., fine) al quale si associarono in  sèguito Democrito, Prodico, Crizia, l’epicureo Metrodoro di Lampsaco. 
                      Per  questi pensatori dèi ed eroi omerici in combattimento erano personificazioni  delle forze della natura che con il loro contrastarsi determinano i ritmi della  vita cosmica. 
                      Testi: L. Vidman, Sylloge Inscriptionum Religionis Isiacae et  Serapiacae, Berlin 1969; M. Totti, Ausgewählte  Texte der Isis- und  Serapis Religion, Hildesheim 1985. In  generale cfr. J. Leclant – G. Clerc, Inventaire  bibliographique des Isiaca. Répertoire analytique des travaux relatifs à la  diffusion des culte isiaques. 1940-1969, 4 voll., Leiden 1972-1991; R. E.  Witt, Isis in the Greco – Roman world,  London 1971; F. Dunand, Le mystères  ègyptiens aux époques hellénistique et romaine, in F. Durand et Alii, Mystères et syncrétismes, Paris 1975;  Id., Syncrétismes dans la religion de  l’Egypte romaine, in F. Dunand – P. Lévêque (curatori), Le syncrétisme dans les religions de  l’antiquité. Colloque de Besançon, 22-23 octobre 1973, Leiden 1975, pp.  152-185; F. Le Corsu, Isis: mythe et  mystères, Paris 1977; F. Solmsen, Isis  among the greeks and romans, Cambridge, Mass. 1979; J. Ries, I culti isiaci e il loro simbolismo sacrale  nella vita religiosa dell’Egitto ellenistico e romano, in AA. VV., Le civiltà del Mediterraneo e il sacro,  Milano 1992, pp. 151-166; S. A. Takacs,  Isis and Serapis in the roman world, Leiden 1995; M. Malaise, Pour une terminologie et une analyse des  cultes isiaques, Bruxelles 2005; in particolare sulla penetrazione del  culto isiaco in Italia cr. M. Malaise, Les  conditions de pénetration et de diffusion des cultes égyptiens en Italie,  Leiden 1972. 
                      Traduzione di C. Annaratone.  Su Apuleio isiaco: J. Gwyn Griffiths, Apuleius  of Madauras: the Isis book, Leiden 1975. 
                      Sulla Isis lactans cfr. V. Tran  Tam Tinh, Isis lactans. Corpus des  monuments gréco-romains d’Isis allaitant Harpocrate, Leiden 1973; T. F.  Mathews, Isis and Mary in early icons,  in M. Vassilaki (curatore), Images of the  Mather of God. Perceptions of the Theotokos in Byzantium, Aldershot 2004, pp. 3-11. Inoltre: F.  Dunand, Isis, mère des dieux, Paris  2000, pp. 161-168 (d’Isis à la Vierge Marie). 
                      Gli  adoratori di Serapide erano soliti riunirsi per celebrare banchetti rituali ai  quali si veniva convocati con biglietti d’invito (ad es.: «il dio t’invita al  pasto [kale‹ se Ð qeÒj e„j kle…nhn]… che avrà luogo domani, all’ora  nona», PColon 57) talvolta  sopravvissuti su papiro, cfr. l’elenco in O. Montevecchi, Papirologia, Torino 1973, p. 273; questi documenti giovano a meglio  intendere la raccomandazione paolina di I  Cor. 10,21: «Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei  demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei  demoni» [→ IV.5.2B]. Sulla cucina per i pasti di Serapide ironizza Tert., apol. 39,15: Cfr. H. C. Youtie, The  ‘kline’ of Sarapis, in HThR 41 (1948), pp. 2-29; J. F. Gilliam, Invitations to the kline of Sarapis, in  Collectanea Papyrologica. I. Bonn 1976, pp. 315-324. Il papiro  d’Ossirinco PSI 10, 1162 che, molto  probabilmente, ci restituisce una formula di giuramento connessa  all’iniziazione ai misteri di Serapide contiene un riferimento al Dio (biblico)  «che separa la terra e il cielo… etc.» e, pertanto, testimonia la diffusione  nell’Egitto del III sec. di testi biblici in greco in ambienti pagani, cfr. G.  Rinaldi, La Bibbia dei pagani, II,  Bologna 1998, pp. 77-78, cfr. Cfr. G. Roeder, s. v. Sarapis, in RE Suppl. IV, 1924, coll. 806-853; P. M.  Fraser, Current problems concerning the  early history of the cult of Sarapis, in Opuscula Atheniensia, VII, Lund 1967, pp. 125-130. 
                      Cfr. J. Schwartz, La fin du Sérapeum d’Alexandrie, in Essays in hon. of C. B. Welles = Amer. St. in Pap. 1 (1966), pp.  97-111; T. Orlandi, Uno scritto di  Teofilo d’Alessandria sulla distruzione del Serapeo?, in Par. Pass. ?  (1968), pp. 295-304 
                      Edizione a cura di A. J.  Festugière: Corpus Hermeticum, Paris  1945-1954. La traduzione italiana dei trattati, a cura di B. M. Tordini  Portogalli, è in Discorsi di Ermete  Trismegisto. Corpo ermetico ed Asclepio, Torino 1965, per il Poimandres cfr. il testo e trad. it. di  P. Scarpi, Venezia 1987. Cfr. anche G. Sfameni Gasparro, L’ermetismo nelle testimonianze dei Padri, in RSLR 7 (1971),  215-251; A. Festugière, La révélation  d’Hermès Trismégiste, 4 voll., Paris 1949-1954; Id., Ermetismo e mistica pagana, tr. ital., Genova 1991; A. Gonzales  Blanco, Hermetism: a bibliographic  approach, in ANRW II 17.1, 1984,  2240-2281. La letteratura ermetica rivela anche influssi biblici,  prevalentemente dal libro del Genesi,  cfr. B. A. Pearson, Jewish elements in  Corpus Hermeticum. I. Poimandres, in Studies  in Gnrositcism and Hellenistic Religions. Fs. G. Quispel, Leiden 1981, 336-348;  A. Camplani, Riferimenti biblici nella  letteratura ermetica, in ASE 10 (1993), 375-425; Id., Scritti ermetici in copto, Brescia 2000. Sull’ermetismo in  Africa cfr. J. Carcopino, Aspects  mystiques de la Rome païenne, Paris 1942, 207-314. 
                      A  proposito delle opinioni che i pagani  avevano dei giudei, la ricerca deve partire dalla raccolta di M. Stern, Greek and latin authors on Jews and Judaism,  3 voll., Jerusalem 1976-1994 ed anche M. Whittaker, Jews and Christians: graeco – roman views, Cambridge 1984; in  particolare sull’atteggiamento di diffidenza, satira e talvolta anche ostilità  che in ambienti ellenistico romani (colti e popolari) si ebbe nei riguardi dei  giudei cfr. U. Wilcken, Zum  alexandrinischen Antisemitismus, Leipzig 1909; R. Marcus, Antisemitism in the Hellenistic Roman world,  in K. S. Pinson (curatore), Essays on  Antisemitism, New York 1946, 61-78; J. N. Sevenster, The roots of pagan Anti – Semitism in the ancient world, Leiden  1975; J. Daniel, Anti-semitism in the  Hellenistic – Roman period, in JBL 98 (1979), 45-65; P. Schäfer, Giudeofobia. L’antisemitismo nel mondo  antico, trad. it., Roma 1999 (con ampia bibliografia alle pp. 295-305). Si  noti, tuttavia, che il vocabolo ‘antisemitismo’ è impropriamente adoperato in  riferimento al mondo classico, quest’ultimo, infatti, sorrise, dileggiò,  talvolta anche osteggiò i giudei, ma mai per motivi connessi ad una qualche  idea di ‘razza’. 
                      Con  questa espressione si indica un corpus di papiri greci di autori alessandrini  relativo ai conflitti che ebbero luogo nella capitale egiziana tra pagani e  giudei prevalentemente sui diritti di cittadinanza. Ma lo scontro va ben al di  là di questo specifico tema e trova le sue più profonde motivazioni nella  diversità radicale tra la visione del mondo giudaica e quella classica. I testi  risalgono ai secc. I-II, gli episodi narrati prevalentemente all’età degli  imperatori Caligola e Claudio, cfr. H. Musurillo, Acts of the pagan martyrs, Oxford 2000. 
                      Cfr.  G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani, I,  Bologna 1998, 69-77 
                      La letteratura giudeo  ellenistica ebbe ad esprimersi attraverso generi che, prevalentemente,  ricalcavano gli omologhi della letteratura ellenistica vera e propria. Vale la  pena ricordarne alcuni. 
                      Tra gli scrittori di storia e di antichità giudaiche in lingua greca vanno annoverati Alessandro  Polistore, Demetrio, Eupolemo, Artapano ed altri. Questa storiografia  apologetica tendeva a dimostrare la grande antichità del popolo giudaico e ad  attribuire a personaggi come Abramo e Mosè le benemerite acquisizioni della  civiltà egizia e greca. È evidente che a monte di queste argomentazioni v’erano  le accuse di matrice pagana rivolte ai giudei di costituire una popolazione  ignobile e di scarsa cultura. Di queste opere sopravvivono solo frammenti  pervenutici specialmente grazie ad Eusebio di Cesarea; gli autori cristiani,  infatti, erediteranno dall’apologetica giudaica il motivo della priorità  cronologica di Mosè nei confronti dei sapienti del paganesimo e l’altro,  connesso, del plagio che questi ultimi avrebbero fatto delle opere del saggio  legislatore biblico (furta Garecorum);  cfr. R. Doran, The jewish hellenistic  historians before Joseph, in ANRW II 20.1, 1987, pp. 246-297.Al genere del romanzo edificante appartengono invece  le seguenti opere: Il terzo libro dei Maccabei di cui s’è già detto e che può  considerarsi una saga eziologica, cioè vuol spiegare le origini di una festa  celebrata dai giudei di Alessandria, comunità cui appartenne l’autore, attivo  verso la fine del I sec. a.C.; cfr. A. Paul, Le troisième livre des Macchabées, in ANRW 20.1, 1987, pp. 298-336. Il Libro di Giuseppe ed Aseneth che, con intenti missionari ed apologetici, racconta il matrimonio del giudeo  Giuseppe con la figlia del sacerdote egiziano Putifar e la conversione di  quest’ultima al giudaismo, cfr. M. Cavalli,  Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneh, Palermo 1983. La Preghiera  di Manasse che parla della conversione di questo re giudeo in esilio a  Babilionia e ne riporta le sue preghiere che saranno utilizzate poi anche in  àmbiti cristiani.Un certo Ezechiele (c. 200  a.C.) fu autore di una tragedia che  rappresentava l’esodo degli ebrei dall’Egitto; si tratta di un dramma storico  che, nei toni della tragediografia classica, mirava a magnificare l’epopea  d’Israele contro le denigrazioni dei pagani che intendevano l’episodio  dell’esodo come l’espulsione nel deserto di un miserabile gruppo di schiavi  lebbrosi dalla civilissima terra d’Egitto.Al genere della letteratura sapienziale, tendente a  riecheggiare la trattatistica filosofica ellenistica, appartengono varie opere  tra le quali ricorderemo le seguenti due composte nel I sec. a.C.: La  Sapienza di cui s’è già detto e che presenta il motivo ellenistico  della preesistenza dell’anima al corpo e la convinzione che quest’ultimo sia un  peso opprimente per l’elemento spirituale. Il quarto libro dei Maccabei,  influenzato dallo stoicismo, intende esaltare la forza della ragione che può  dominare le passioni; esempi vengono tratti dalle vite di Giacobbe, di Giuseppe  e del re Davide. V’è poi la parte dedicata all’esaltazione dei martiri Maccabei  ed all’esecrazone di chi, al sèguito di Antioco IV Epìfane, profanò il Tempio  di Gerusalemme. L’autore, sia pur con procedimenti esegetici affini a quelli di  Filone, vuol dimostrare come le virtù, conformi agli insegnamenti di Platone e  dello stoicismo, rendono l’uomo pio più pronto alla pratica della vera  religione, che consiste nell’osservanza della Legge di Mosè. 
                      Cfr. l’edizione della  Settanta in due volumi di A. Rahlfs, Septuaginta,  Stuttgart 1939; G. Morrish, A Concordance  of the Septuagint, London 1887 (rist. 1974); la bibliografia sulla Settanta  è offerta da S. P. Brock et Alii (Leiden 1973) e da C. Dogniez (dal 1970 al  1993; Leiden 1995). Cfr. anche E. Tov, Die  griechischen Bibelübersetzungen, in ANRW II 20.1, 1987, pp. 121-189; A. Paul, La  Bible grecque d’Aquila et l’idéologie du judaisme ancien, ibid. II 20.1,  1987, pp. 221-245; G. Dorival – O. Munnich, La  Bible grecque des Septante. Du judaïsme hellénistique au christianisme ancien,  Paris 1988; Septuaginta. Libri sacri  della diaspora giudaica e dei cristiani, in ASE 1 (1996), pp. 1-80; 2  (1997), pp. 141-207; M. Cimosa, Guida  allo studio della Bibbia greca (LXX), Roma 1995; N. Fernandez Marcos, La Bibbia dei Settanta, trad. it.,  Brescia 2000. Sulla Lettera di Aristea a  Filocrate cfr. le traduzioni con commento di R. Tramontano (Napoli 1931),  C. Kraus Reggiani (Roma 1979), F. Calabi (Milano 1995) e L. Troiani, Il libro di Aristea ed il giudaismo  ellenistico, in B. Virgilio (curatore), Studi  ellenistici, II, Pisa 1987, pp. 31-61. 
                      Nella raccolta degli Oracoli  sibillini, assemblata nel secolo VI, nella forma in cui la leggiamo  oggi, tre sono i libri che vanno attribuiti ad autori giudei:III:         composto tra la metà  del II e quella del I sec. a.C., pertanto il più antico della raccolta.  Contiene vaticinia ex eventu su  Alessandro Magno, una glorificazione del popolo d’Israele ed una descrizione  dell’era messianica. Fu certamente composto in Egitto;
 IV:          composto tra il 79 e  l’88 d.C., riprende le immagini dei quattro imperi universali del profeta  Daniele e preannuncia il giudizio di Dio; interessante l’accenno all’eruzione  del Vesuvio del 79, intesa come un castigo divino, ed il motivo del Nero redivivus che sarà sottinteso  nell’Apocalisse cristiana di Giovanni [→ IV.6], cfr. S. A. Redmond, The date of the fourth Sibilline oracle,  in SecCent 7 (1990), pp. 129-149;
 V:  prodotto degli spiriti  nazionalistici tra la guerra giudaica del 66-70 e quella del 132, pone Israele  al centro della storia ed esalta la figura del Messia; la sua redazione finale,  avvenuta in Egitto, è da assegnare allo scorcio del II secolo. Non è privo di interpolazioni cristiane, cfr. B. Teyssèdre, Les raprésentation de la fin des temps dans  le chant V des “Oracles sibyllins”: les strates de l’imaginaire, in  Apochrypha 1 (1990), pp. 147-165.
 Questa letteratura attesta  la fede nell’immortalità dell’anima e la convinzione secondo la quale il sangue  versato dai martiri può giovare quale espiazione per i peccati. Cfr. la  classica edizione di J. Geffcken, Leipzig 1902 e la successiva di A. Kurfess, Sibyllinische Weissagungen. Urtext und  Übersetzung, München 1951. Inoltre: A. Peretti, La Sibilla babilonese nella propaganda ellenistica, Firenze 1943;  J. J. Collins, The development of the  Sibilline tradition, in ANRW II  20.1, 1987, pp. 421-459; H. W. Parke, Le  Sibille, trad. it., Genova 1992; E. Schürer, Storia del popolo giudaico, trad. it., III 1, Brescia 1997, pp.  793-837 (con bibliografia).
 
                      Primi cenni di esegesi  allegorica applicata alle Scritture giudaiche si riscontrano già nell’Epistola di Aristea dove si dice che  Mosè nel distinguere bestie pure e bestie impure (Lev. 11,2-8; Dt. 14,4-8)  «ha seguito un metodo figurativo (tropologîn ™xšqeto)». V’è poi Aristobulo  (181-145 a.C.), autore giudeo-alessadrino il quale per primo fece esplicito  ricorso all’allegorismo per non cader preda degli antropomorfismi (m¾  ™kp…ptein e„j tÕ muqîdej kaˆ ¢nqrèpinon kat£sthma, ap. Eus., p.e. 8,10,2). Lo stesso Aristobulo sembra che sia stato il primo a  mettere in giro l’accusa rivolta ai saggi del paganesimo di aver plagiato dagli  scritti biblici, accusa che avrà poi gran fortuna nell’apologetica cristiana [→  VI.11], cfr. C. Kraus Reggiani, I  frammenti di Aristobulo esegeta biblico, in Boll. dei class. dell’Accad. Naz.  dei Lincei, Serie 39, fasc. 3°, R 1982, pp. 87-134; Ead., Aristobulo e l’esegesi allegorica dell’Antico Testamento nell’àmbito  del giudaismo ellenistico, in RFIC 101 (1973), pp. 162-185. Per Filone  l’uomo, creato da Dio nel mondo mediante il Logos, è costituito da un principio  divino, l’anima, legato al carcere corporeo. Il suo còmpito è l’unione con Dio,  possibile solo attraverso la liberazione da tutto ciò che è corporeo e  materiale, poiché la materia costituisce l’origine del male. Così l’uomo è sollevato  fino all’estasi, che è la visione del divino. Filone narra dei torbidi  antigiudaici alessandrini del 38 e della sua conseguente missione difensiva a  Roma, presso l’imperatore Gaio Caligola, nelle sue opere Legatio ad Caium ed In  Flaccum, cfr. C. Kraus, Filone  Alessandrino e un’ora tragica della storia ebraica, Napoli 1967 che offre  anche la trad. italiana dei due testi. Le opere di Filone sono ora tradotte in  italiano a cura di G. Reale ed edite in un’apposita collana della Rusconi. Cfr.  anche E. Bréhier, Les idèes  philosophiques et religieuses de Philon d’Alexandrie, Paris 1950; A.  Maddalena, Filone Alessandrino,  Milano 1970; R. Radice, Filone  d’Alessandria: bibliografia generale 1937-1982, Napoli 1983; P. Borgen, Philo of Alexandria. A critical and synthetical  survey of research since world war II, in ANRW 21.1, 1984, pp. 98-154; J.  Cazeaux, Philon d’Alexandrie, exégète,  ibid., pp, 156-226; E. Hilgert, Bibliographia  Philoniana 1935-1981, ibid., pp. 47-97; B. L. Mack, Philo Judaeus and exegetical tradition in Alexandria, ibid., pp.  227-271; S. Sandmel, Philo Judaeus: an  introduction to the man, his writings, and his significance, ibid., pp.  3-46; C. Krauss Reggiani, Filone  d’Alessandria. La filosofia mosaica, Milano 1987; P. Borgen, Philo of Alexandria, an exegete for his time,  Leiden 1997; D. T. Runia, Filone  d’Alessandria nella prima letteratura cristiana, Milano 1999.   |